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domenica 15 marzo 2009

UNA VOLTA A TAVOLA. La cucina ed il forno

La cucina e il forno

di Carmine Senatore

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La cucina è lo spazio che in un’abitazione viene destinato alla preparazione dei pasti. Ai tempi di noi ragazzi in essa si trovava il focolare che a sua volta era ,al tempo stesso, fornello , sorgente di luce e fonte di calore. Esso era il centro e il simbolo dello spazio chiuso della casa. Conteneva il fuoco che riscaldava e cuoceva i cibi e conferiva alla casa il centro che la fissava nello spazio e assicurava nel contempo al gruppo domestico la sua intimità e socialità .Intorno ad esso , seduti su una sedia o su uno sgabello venivano raccontate dalle nonne e dalle madri le leggende che erano retaggio, il fuoco sacro, dei nostri antenati.

I cibi venivano cotti sul focolare , che rappresentava il centro della casa specialmente durante il periodo invernale. Per separare i recipienti dal fuoco e dargli stabilità veniva usato un teppiede in ferro detto “trepano”. Solo nel case più ricche o le case di alcuni esperti muratori, fra cui anch’io, possedevano le cosiddette “furnacelle”, un blocco di pietrame a due o tre fuochi di dimensioni differenti ,che venivano alimentate a con pezzi di carbone, rigidamente fatti in maniera ,piuttosto che artigianale. casalinga, spegnendo alcuni tizzoni abbastanza grossi presi dal focolare con acqua.I fuochi avevano dimensioni differenti : il più grande per la caldaia per cuocere la pasta,il più piccolo per cuocere il sugo di pomodoro che veniva effettuato con pomodoro e pezzi di “castrato”. I fuochi erano chiusi con cerchi di ghisa concentrici che potevano, riducendone il numero ,adattarsi alle dimensioni dei recipienti , tra cui il “tiano”, un recipiente in terracotta di forma tronco-comica molto largo e poco alto con due manici. Tutto il blocco era rivestito di mattonelle di ceramiche bianche, quasi sempre con dimensioni standard di centimetri venti per centimetri venti. Era proprio nel “tiano” che veniva cotto il ragù,a fuoco lento e per lungo tempo: si iniziava la mattina presto e terminava a mezzogiorno, ora canonica per il pranzo, almeno la domenica e i giorni di festa. Alla salsa di pomodoro nelle bottiglie veniva aggiunta un po’ di conserva, che conferiva densità e sapore all’intingolo che poi serviva per cucinare la pasta che veniva comprata sfusa ,come i cosiddetti “zitoni”,che venivano spezzati a mano per cuocerli. Alla fine la pietanza, condita col ragù, veniva cosparsa di formaggio,ovviamente un caprino o un pecorino. Non ancora presente , non perché non esistesse, il parmigiano. Mi piace qui riferire una nota sul modo con il quale si faceva la spesa. Poiché il denaro circolante era poco e anche perché la gran parte degli artigiani veniva pagata non alla fine del lavoro,ma al momento in cui si vendeva alla fiera qualche animale allevato in modo casalingo o durante la vendita del grano. La spesa veniva annotata dal bottegaio su un quaderno nero detta “libretta” e pagata parzialmente o totalmente quando si aveva il danaro. Si comprende bene come il baratto era insieme al danaro contante una forma di commercio e di scambio. Le uova di gallina ne rappresentavano l’esempio più eclatante, che in genere veniva no scambiate con lo zucchero, sfuso e messo in un “cuoppo” di foglio di giornale . In una tinozza anche il sale da cucina, che veniva preso con un mastello di legno. Ricordo ancora oggi il gesto di Eduardo,il mio bottegaio, quando gli si portavano le uova.: accendeva una lampadina e attraverso la sua luce osservava se l’uovo era fecondato, credo . Il gesto mi sembrava una pratica abituale e allora non ne capivo il significato. Uno dei corredi della cucina , quando si andava in sposa, era la batteria di pentole , parte in alluminio e parte in rame rossa che veniva appesa su un supporto in legno che veniva appeso al muro. Le pietanze, soprattutto quelle fritte, venivano cucinate in una pentola particolare detta “fressola”. Ne esisteva anche una più piccola “ detta “frissulieddu” per cuocere le uova fritte. L’acqua per cuocere i cibi veniva presa dal “varrillo” una botticella di legna col la quale si andava ad attingere l’acqua, preziosa, alla fontana. L botticella,con le dimensioni medie delle basi intorno ai venti centimetri e lungo una ottantina di centimetri,, veniva posta su due ferri curvati,in modo da girarlo facilmente. Ve n’erano anche di dimensioni più grandi, perché queste richiedevano un messo di trasporto più efficace, in genere un muloo un asino. Erano i ricchi ovviamente ad avere queste botti più grandi, vuoi per il maggior consumo vuoi per le migliori concezioni igieniche .I “varrili” una volta riempiti dopo lunga attesa per aspettare il proprio turno,venivano portati in testa mettendo fra testa e recipiente uno straccio avvolto ad anello detto “cruoglio”. L’attesa alla fontana era un momento in cui ci si raccontava le chiacchiere del paese. In questo caso il recipiente, messo in verticale. di serviva come sgabello.

Solo intorno alla prima metà degli anni cinquanta incominciarono a comparire i primi “pibigas”, cosiddetti per l’azienda che produceva le bombole di gas. Veniva posto su una lastra fatta di graniglia di marmo e cemento retta al muro da due staffe in ferro

Il rito del pane era qualcosa di antico e nello stesso tempo gioioso. Il giorno prima si andava a chiedere nel quartiere chi avesse il “luvato “ , il lievito per la fermentazione della pasta. Questo compito, girovago e di richiesta, era compito di noi ragazzi. La prassi era sempre la stessa: per mantenere il lievito fresco veniva scambiato. La farina veniva impastata a forza di braccia e lasciata a lievitare per alcune ore. Dopo di che veniva fatta a “panelle” sulla sui sommità veniva fatto un tagli con il coltello a croce, gesto per me carismatico e pieno di mistero. Veniva acceso il forno utilizzando un fascio di “fascine”:il lavoro era faticoso,perche occorreva riscaldare uniformante il forno per avere una cottura omogenea. Bisognava “sbraciare” continuamente. Quando la volta del forno era diventata incandescente, il pavimento veniva pulito col cosiddetto “ munnolo” , fatto con una bastone di legna molto lungo , alla cui sommità della vi era attaccato un’infiorescenza secca di pannocchia di granturco. Il forno veniva assaggiato con la cottura rapida di una ciambella col buco detto “viccillo”. Si cuoceva la pizza , dopo di che era la volta del pane, che cuoceva per alcune ore. Sento ancora oggi la fragranza che si spargeva attorno e il caldo del forno: sono sensazioni uniche e che sicuramente mai più proverò!

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