Pubblicato su carta sin dal 1993, è uno dei più longevi periodici dell'area della Piana del Sele e Cilento. La Collina degli Ulivi online vuole essere ancora di più un luogo di informazione, ascolto e diffusione di idee, anche attraverso l'interazione in tempo reale con i suoi lettori in ogni parte del mondo.

lunedì 15 marzo 2010

Alburni: storie di lupi

Nessuno slogan meglio di “Alburni, profumo d’origano e ginestra” riesce a rendere gli incanti della montagna che segna i confini tra Piana del Sele e Vallo di Diano. L’abbiamo trovata, questa saporosa ed odorosa descrizione, nel libro di Francesco Monaco, “Storie di lupi”, edizioni “Stampa Editoriale”, 60 pagine, 10 euro. “Da questa natura così selvaggia il bosco generava lupi, e la società contadina generava i Briganti”, scrive Monaco, un meccanico sessantenne con la passione della storia moderna della sua terra. Una storia che sconfina spesso nel mito. Come quello di Passannante, celebre cacciatore di Sicignano, che ammazzando l’ultimo orso in circolazione da quelle parti, consentì al lupo di diventare il padrone incontrastato del bosco. Il lupo come metafora, perché come canta Eugenio Bennato: “’o vero lupo ca magna e criature è u piemontese c’amma caccià”. E’ l’humus dell’unica guerriglia contadina delle nostre parti, il brigantaggio, che per noi affonda nelle regole della “spartenza” tra contadini e proprietari terrieri che fissavano a “10 a 2” le parti nella divisione dei raccolti e dell’allevamento degli animali. Da qui venne fuori Gaetano Tranchella: “Di carattere forte, bella presenza e avventuriero”. Il suo punto di forza fu nella conoscenza di questa montagna, del fiume Calore e del bosco di Persano: “era inaccessibile per i gendarmi che non conoscevano quei luoghi”. Quando li fece conoscere invece un viandante londinese, Richard Keppler Craven con “On the road near Sicignano”, lungo la strada vicino Sicignano, si chiama il dipinto, del 1818, che raffigura il panorama di Sicignano, oggi è esposto in una dei migliori musei di Londra, i distratti piemontesi non vi fecero caso. Se li ricordano invece a Scorzo, luogo di locande frequentate finanche da Cicerone, quando – sospettati dare aiuto ai briganti - furono deportati a Zuppino e le loro case furono oggetto di saccheggio. Testimonianze di quel mondo ancora oggi sopravvivono nella gastronomia di ristoranti ed agriturismi come il “Sicinius” di Felice Colliani, erede della taverna di “Messer Giacomo” avamposto d’osservazione per resistere ai malintenzionati, con o senza divise, portavano offesa alla gente che viveva alle pendici di “Albus”, la montagna sacra.
Francesco Monaco meccanico da oltre trent’anni, ha presentato è orgoglioso della sua opera prima: "Storie di Lupi". Sebbene il suo mestiere quotidiano lo porti lontano da penne e quaderni, Monaco ha riportato le storie raccontategli da suo nonno e da numerosi altri zii. I temi si concentrano essenzialmente sui lupi e sui briganti e quindi sul rapporto tra l’uomo e i lupi e tra i contadini meridionali e i soldati piemontesi. Se fosse stato un thriller, il libro di Monaco sarebbe stato etichettato come "psicologico", perché l’autore non si limita a descrivere i fatti, piuttosto le sensazioni di chi ha agito: tensioni, paura, fame, morte, coraggio. E’ di questo che racconta mantenendo costante la conflittualitá tra i lupi e i contadini che vivendo di pastorizia albergavano mesi e mesi tra i monti. Ma il messaggio finale è un lieto fine. L’odio per il lupo cessa, prevale la ragione del cuore di un uomo che, come suo zio Peppe si ritrova faccia a faccia con l’animale. Da non trascurare le descrizioni minuziose della madre. Sembrano essere le sue sensazioni di bambino, mai dimenticate.
Oreste Mottola

Roscigno Vecchio, chiesa chiusa per restauri da 29 anni

di ORESTE MOTTOLA

Nella chiesa madre intitolata a S. Nicola di Bari, al centro di piazza Nicotera in Roscigno Vecchio i restauri, dopo ben 29 anni, non finiscono mai. Mentre il restauro delle case va avanti, il recupero della chiesa sembra essersi fermato. “Una sera ho visto arrivare Sgarbi qui”, racconta il custode di Roscigno, Giuseppe Spagnuolo. Sono almeno tre le stratificazioni storiche: convento basiliano e prima ancora fors’anche luogo di culto pagano. E poi la chiesa che ha ospitato tutti i fatti importanti di Roscigno fino al 1960. Il paese nuovo sorge più a nord, a poco più di un chilometro, ma la storia di questa comunità è tutta quaggiù, nella grande piazza con al centro il lavatoio e la chiesa. A dare inizio alla protesta è Vito Gerardo Roberto, di professione informatico. “Dopo aver interpellato tutti non mi resta che scrivere al presidente Napolitano”, dice. L’assessore Pino Palmieri ha già fatto le sue rimostranze alla Soprintendenza e promette di farsi sentire direttamente da Bondi. L’ultima tranche di lavori, iniziati nel novembre del 2004, per quasi 27 mila euro di spesa, non sono stati ancora conclusi. La discussione ora si è accesa intorno ai saggi di scavo effettuati dagli archeologi all’interno della chiesa. Si cercavano i resti delle antiche sepolture. Non è venuto fuori niente di significativo, si può procedere a ricoprire con il cemento, hanno detto gli esperti. Ma sono in molti a contestare ritenendo troppo superficiali i saggi, “non sono andati più a fondo perché non c’erano soldi da spendere”, aggiunge chi dice di saperla tutta. Da qui nasce la richiesta di avere un pavimento in legno e con ampie zone in vetro che permettano di osservare quello che si vede sotto i piedi. “Io sono rimasto sbigottito dallo stato in cui ho trovato gli stucchi che facevano da cornice alle pitture (almeno queste rimosse) presenti all'interno della chiesa, dallo stato fatiscente degli antichi altari sottostanti le stesse (diffusi ai lati delle navate secondarie) e dalla pavimentazione (completamente rimossa) all'interno della chiesa”, dice Vito Gerardo Roberto. La chiesa potrebbe diventare un grande attrattore turistico dopo un attento restauro e dovrebbe essere riaperta al culto o almeno riaperta alla visione di migliaia di turisti e visitatori che ogni anno si recano a visitare Roscigno Vecchio. “Presidente intervenga per far recuperare allo Stato italiano (visto che sono opere di restauro finanziate con contributi provenienti dalle casse dello Stato Italiano) un prestigio un po' offuscato perché i lavori interminabili della Chiesa madre – continua Vito Gerardo Roberto - hanno diffuso tra la popolazione residente la sensazione che le istituzioni siano latitanti e che la chiesa e le sue inestimabili opere d'arte (stucchi, statue ed affreschi) siano destinate ad una lenta e degradante agonia e destinate ad un lento ed inesorabile tramonto se non s'interviene nel breve termine (1-2 anni)”. Sulla stessa linea è Angelo Spinillo, vescovo della diocesi di Teggiano.

Gegè Colliani. "Vi racconto il Lorenzo Rago che io ho conosciuto"

L’ultimo superstite del consiglio comunale del 1953

ORESTE MOTTOLA
“Commendatò, buonasera” gli dicevo incontrandolo e salutando sempre per primo visto che ero molto più giovane. E Rago di rimando - “Buonasera giovinò, ah tu sei quello che mi ha fatto spendere 13 milioni per vincere ‘ste elezioni”. Felice Colliani, che è l’unico componente del consiglio comunale con sindaco Lorenzo Rago, l’uomo politico ed imprenditore di Battipaglia scomparso misteriosamente nel 1953. Ad ottantrè anni ricorda bene quegli sprazzi di dialoghi serali di 54 anni or sono. Fra avversari politici civili allora si usava così. Felice Colliani, poco più che ventenne è il fondatore della Democrazia Cristiana a Battipaglia, e contro Rago ha intrapreso una battaglia politica serrata. Comizi e campagne giornalistiche sono le sue armi. Rago è sindaco fin dal 1948, quando successe a Renato di Moncharmont, uno dei comproprietari della fabbrica Rondino, una strana figura di comunista aristocratico e romantico. Moncharmont per seguire la sua donna se ne torna a Napoli e lascia il comune a Rago. Colliani si mette di puntiglio, lui che ha respirato anche un po’ dell’aria dell’antifascismo cattolico nell’Eboli dalla quale proviene. “Nelle elezioni del 1952, per un mese, ogni sera, da un balcone di Palazzo De Crescenzo, tenevo un comizio di quaranta minuti dove lo prendevo di petto il sindaco l’accusavo di trasformismo per essere passato dal partito dell’Uomo Qualunque al Partito Socialista. Ironizzavo sui 29 sbuffanti carri che erano attaccati al suo treno, si trattava dei suoi candidati. Dicevo anche che non era cosa alla sua altezza amministrare il comune”. Alla fine della serata, per tornare a casa, ero costretto a farmi accompagnare da due carabinieri. Poi continuava a martellare sul giornale Il Tusciano”. La battaglia di Gegè Colliani, come gli amici lo hanno sempre chiamato, non finisce certo il giorno delle elezioni, che inevitabilmente perde. “Rago distribuiva pane, pasta ed olio alle famiglie. Permetteva a molti di mettere tavola. Io gli offrivo discorsi…”. Colliani non è il tipo di arrendersi. Intanto perché ha fatto scendere in campo i pezzi da Novanta. Sono il direttore del tabacchificio della Saim, Orlando Manzo, che è uomo di Carmine De Martino, il padrone di metà dell’economia salernitana. “Nel primo consiglio comunale proposi di dichiarare Rago non eleggibile poiché, grazie ad un prestanome, un certo Ferrentino di Nocera, occupava abusivamente i terreni del demanio di Battipaglia. Produssi anche delle fotografie che dimostravano come Rago in quelle terre si comportasse da vero padrone. Nel corso della discussione mi resi conto di come uno che prendeva oltre tremila voti di preferenza dalla cittadinanza non potesse essere estromesso, magari forzando un po’ la legge in senso restrittivo. Così ritirai la mozione….”. Rago apprezzò il coraggio ma anche la lealtà di quel giovanotto, originario di Contursi e cresciuto ad Eboli, al seguito del prete don Paolo Vocca e che già nel 1941 partecipava alla redazione di un foglio clandestino. Colliani era uno che faceva politica sul serio e Rago sotto sotto ne apprezzava il coraggio. Fu così che una sera dopo il consueto saluto – dialogo fra i due che don Lorenzo lo ferma e gli propone di “andare a mangiare qualcosa assieme”. Colliani accetta e nel gennaio del 1953, “poche settimane prima della scomparsa” – ricorda – se ne vanno assieme alla famosa “pizzeria Negri” di Pontecagnano. Con Rago c’è sempre l’autista Marotta, che però verrà fatto accomodare da solo, ad un altro tavolino. “Al tavolo stemmo solo io e lui. Voleva sapere chi ero io e cosa volesse il mio partito che allora a Battipaglia era appoggiato solo dai padri Stimmatini. Però più interessante, ma me ne sono accorto dopo, fu vedere come si preoccupasse di avvertire la moglie del ritardo nel rientro a casa”. Questo – a quanto hanno poi raccontato i suoi familiari agli inquirenti – non avverrà in quella famosa notte. Ma qual è il giudizio che Colliani dà di Rago? “Rago era una brava persona, con una grande dose d'ambizione con grandi disponibilità economiche. Come amministratore era privo delle necessarie basi ma aveva avuto l’intelligenza di crearsi una squadra assai capace fatta di persone modeste ed oneste ma assai diligenti. Il ferroviere Castellano ed il calzolaio Rossomando sono i primi nomi che mi vengono in mente. Sono loro ad avere l’intuizione di costruire case popolari lungo via del Centenario. Una scelta che poi noi Dc abbiamo confermato. Su tutti dominava il segretario comunale Luigi Rossini, un uomo dalle grandi capacità professionali. I giovanotti democristiani però si dettero da fare. Le parrocchie e gli Stimmatini da una parte, la nuova classe dirigente che era alla testa della Riforma Fondiaria dall’altra. A fare da elemento d’unione è proprio Colliani. Con Tullio Capone, Francesco Crudele, Luigi Gambardella, Italo Rocco e Mario Vitolo pubblicazione di un settimanale locale "Il Tusciano"; il primo numero portava la data del 2 marzo 1950. Il giornale fu ben accolto dai Battipagliesi, anche perché pubblicava le estrazioni del lotto, e, finché fu in edicola, rappresentò non solo informazione attenta ma, soprattutto, stimolo per gli amministratori a ben operare. “Il Tusciano”, nei primi mesi infuocati del caso Rago, giocò anche un ruolo nel mantenere viva l’attenzione sulla pista locale di “via dei Fiori”, così denominata per via di un cancello che permetteva l’ingresso al cinema gestito da Gabriele Garofalo, un altro grande avversario dei Rago. “Questo mi costò nove interrogatori da parte degli inquirenti. Mi dicevano – racconta Colliani – noi ti interroghiamo informalmente. Ed io altrettanto informalmente rispondevo…come dicevo sempre, in premessa, al poliziotto che mi stava a sentire e mi poneva sempre le stesse domande”.

Oreste Mottola

ALBURNI. “I lupi fanno strage dei vitelli delle mucche podoliche”


Dal Parco del Cilento indennizzi e modalità che fanno infuriare gli allevatori. “Pronti a fare battute da soli”.


ORESTE MOTTOLA
I lupi degli Alburni vanno all’attacco dei vitellini della mucca podolica. Il Parco del Cilento paga, e poco come vedremo successivamente, solo se l’allevatore riesce a ritrovare il 75% della carcassa del povero vitellino sbranato dai lupi e se la fa verbalizzare dagli agenti della forestale. Solo che sul pasto dopo il lupo ci arriva il cinghiale, qualche cane selvatico, ed alla fine è difficile che avanzi qualche osso. “Allora organizziamo una bella mena e così abbiamo risolto il problema”. Cos’è la mena? “Una battuta di caccia al lupo. Si facevano una volta. Di prima mattina, centinaia di persone battevano i boschi dove c’erano le loro tracce facendo rumore e spingevano il branco in dei passaggi obbligati dove esperti tiratori facevano fuoco con i fucili. Potremmo rifarle, come disobbedienza civile e per far rivivere una tradizione”. In bocca al lupo, allora. Sorriso amaro, ironia rispedita al mittente. Non è il caso di metterla sullo scherzo. Giovanni, chiamiamolo così, bovaro sui monti Alburni, non si fa fotografare e non vuole comparire in alcun modo. Alle lettere agli enti, così come alle denunce sui giornali, non crede. I suoi colleghi, tutti allevatori di vacche podoliche degli Alburni, sono arrabbiati, ma pensano a vie d’uscita. “Ai lupi vogliamo far pure mangiare qualche nostro vitello. Dal Parco del Cilento vogliamo degli indennizzi equi, che facciano star tranquilli i nostri portafogli delle nostre aziende”. Perché, da qualche mese fra Castelcivita, S. Angelo a Fasanella, Ottati e Corleto Monforte, i lupi sono tornati e fanno stragi di vitelli. L’anno scorso l’allarme aveva riguardato Piaggine, la zona del Cervati. C’è un branco nuovo, oppure quell’unica famiglia di lupi che è segnalata in questa zona si è accresciuta. Va all’attacco dei vitellini podolici che sono allevati, allo stato brado, sull’intero massiccio degli Alburni. Rappresentano ancora una robusta fetta dell’economia, con la produzione caciocavalli e burrini. E carne buona come non se ne trova più. A finire l’opera, ci pensano i cinghiali, che qui crescono numerosi. “In pochi mesi ci abbiamo rimesso oltre centocinquanta vitelli”, racconta Daniele Monaco, un giovane allevatore di mucche podoliche sugli Alburni. Professione e specie allevata sono a rischio d’estinzione, tanto che la comunità montana, già da qualche anno, ha lanciato un programma d’adozione. C’è chi paga duecentocinquanta euro l’anno ed in cambio ha un paniere con caciocavallo, burrini ed altri prodotti della montagna. Il più illustre dei sottoscrittori è l’eurodeputato Alfonso Andria. ”E’ polvere negli occhi, assistenza, pubblicità per i politici. Pensassero allo stato delle strade montane. E’ disastroso. Io, come gli altri che fanno questa mia attività, una volta potevano dire di avere un capitale per le mani”. Ed oggi? “Devo stare accanto ai miei animali notte e giorno. Sono un giovane, non so fino a quando potrò fare questa vita”. Anche i primi cittadini dei paesi che più vivono di zootecnia allo stato brado si sentono impotenti.
“Si diffondono perfino voci di ripopolamenti di lupi fatte dal Parco del Cilento sul nostro territorio. Al comune non risulta niente. Lo vorrei sapere anch’io. Sono sindaco da non più di tre mesi”, racconta Pasquale Marino, il commercialista che guida Ottati.
“Facciamo causa al Parco”, propone Giuseppe Doddato, profondo conoscitore delle risorse forestali degli Alburni e del Cilento. “E’ giusto tutelare la fauna selvatica. Ma chi deve rinunciare ad una parte del suo reddito, venga pagato per quel che perde”. Ed invece?
“Un nostro allevatore in anticipo paga per il pascolo comunale e gli affitti dei terreni privati. Così come ci ha messo anni per far crescere la vacca che darà alla luce il vitellino. Si tratta poi d’esemplari che hanno normali valori commerciali. Un piccolo di podolica chi te lo vende? Poi c’è di più, la vacca che perde il piccolo, proprio perché è allo stato brado, non può essere munta né con le mani e nemmeno con la mungitrice. Quando cresce il piccolo è in piena lattazione, è destinata così ad ammalarsi di mastite, e non potrà più produrre”. Doppio danno, allora.
Giuseppe D’Urso allevatore di S.Angelo a Fasanella, arriva con le carte alla mano. Dal Parco ha avuto una volta 155 ed un’altra 355 euro di rimborso. A fronte di un mancato guadagno di almeno 2400 euro. “E meno male che i lupi mi avevano lasciato qualcosa…”, sospira. “Ci dovevo mettere solo un po’ di lavoro di sorveglianza, noi a questi animali mica gli diamo il mangime o i foraggi”, racconta ancora. Per questo si è fatta scrivere una diffida e l’ha spedita al Giuseppe Tarallo, presidente del Parco: “…gli episodi descritti costituiscono grave nocumento e pregiudizio all’economia familiare dei piccoli allevatori. E l’indennizzo che ci date non è equo”.
“Qui manca un solo animale: l'uomo. Ieri l'emigrazione, oggi la fuga in pianura. Ottati e S. Angelo a Fasanella, oggi hanno meno di mille abitanti. Io ho il dovere – aggiunge il sindaco Marino - di tutelare gli allevatori. E chi ha visitato gli Alburni sa che quelle mandrie sono così belle a vedersi ed ecompatibili. Non vorrei che uscisse qualcuno a dirmi che il turismo, l’ecologia…”. “I cinghiali distruggono la cotica erbosa, il prato verde che vedono tutti, sapete ci metterà almeno 60 anni per riformarsi. Lo dico a chi si ritiene più ambientalista degli altri”, dice Giuseppe Doddato.

Hemingway si prese una sbandata per una bella di Acciaroli e Mary s’ingelosì

In un libro presentate nuove testimonianze sul soggiorno cilentano dello scrittore americano

Dieci giorni o più, nell’estate del 1951. Hemingway ha davvero conosciuto il Cilento. Nonostante le smentite di Fernanda Pivano. Lo raccontò più o meno così: “Raramente sono stato nel vostro sud. Solo una volta e per puro caso. Dovevamo visitare Napoli ed incontrare un gruppo di amici che non abbiamo visto e così ci siamo messi in viaggio verso Pompei e invece ci siamo ritrovati io e Mary ad Acciaroli, un paesino di pescatori, con facce abbronzate da un sole a scorza di limone. Ricordo di Acciaroli una bella chiesetta secolare, i tetti rossi delle case, il mare azzurro spumeggiante e un buon vino che non ubriaca. E poi... beh spero di rivederla presto”. Ernest Hemingway racconta all’architetto materano venuto a trovarlo a Cuba i suoi incontri nel sud dell’Italia. L’architetto vuole portarlo a Matera, per fargli visitare i Sassi, ed immagina un suo racconto o articolo che faccia conoscere al mondo quell’incredibile scenario. Il ricordo di quest’aneddoto è stato tramandato da Bobo Ivancich, nipote di quell’Adriana che fu uno degli amori italiani del grande scrittore. Di lei lo scrittore s' innamorò pazzamente e con cui visse una tumultuosa (ma per alcuni solo platonica) storia d' amore che segnò la Ivancich per sempre, fino a condurla a un tragico destino. Giuseppe Recchia è l’autore del libro “Hemingway for Cuba”, edito da Shakespeare & Company, dove la rivelazione centrale è che nel '59 gli americani obbligarono lo scrittore, con le "buone maniere", ad abbandonare Cuba. L’ambasciatore statunitense Phillip Wilson Bonsal esercitò un forte pressione sullo scrittore affinché si dichiarasse contrario alla Rivoluzione Cubana e a Fidel, fino a trasmettergli la minaccia di convertirlo in traditore se non abbandonava l’isola. Ma quello che a noi interessa è portare nuovi tasselli all’ipotesi di una permanenza nel Cilento, precisamente ad Acciaroli, dove trova le atmosfere per scrivere “Il Vecchio ed il mare”, che è l’opera che maggiormente lo avvicinerà al Nobel per la letteratura. Giuseppe Recchia è uno che ha frequentato il meglio del mondo e miti letterari come Anais Nin e Italo Calvino, Leonardo Sciascia e Jerome Rothenberg, Claude Levi-Strauss e Larry Durrell. “Hemingway for Cuba” sarà presentato a Napoli, il 28 maggio, alle 18, presso il Salone Rosso della libreria Guida.
Recchia, allora Hemingway scoprirà Acciaroli per puro caso. Per via di un incontro con la bella Ivancich che saltò…
“Incontro? No, era qualcosa di più… Hemingway aveva programmato una fuga con Adriana andata a monte perché ci fu un malinteso fra i due a causa della presenza inaspettata di Mary Welsh, la moglie, che non volle restare a Venezia. Il periodo doveva essere fra il mese di agosto e settembre del '51. Fu così che si mise in macchina con l'autista degli Ivancich per una visita a Napoli perché invitati da nobili napoletani (non vi è riferimento a quali nobili, forse amici del conte Carlo Kechler). Ernest e Mary, arrivati a Napoli, hanno un secondo contrattempo. Non riescono a prendere contatto con i nobili napoletani. Ernest s'infuria e si rimette in viaggio a caso verso Salerno. Vanno a far visita a Pompei e poi scendono per stradine varie a Salerno fino a Battipaglia. Qui si perdono ed arrivano per strade impervie fino ad Acciaroli. Sarà Ernest e lo stesso autista che racconteranno l'odissea a Adriana Ivancich. Ernest, a sua volta, ne accennerà qualcosa durante la visita di Adriana e di Dora Ivancich a Cuba nel '53”.
E quel poco viene riportato fedelmente nel suo volume “Hemingway for Cuba”. Perché non se ne parlò mai più di tanto? E la Pivano s’inalbera pubblicamente?
“Non poteva certo Hemingway dire in giro a chiunque di quello che era accaduto con Adriana e del pacco che gli fu tirato dai nobili napoletani. Io immagino ben poco per quanto riguarda il viaggio di Ernest Hemingway ad Acciaroli. Nel mio“Hemingway for Cuba”, ho dovuto ricostruire alcune scene della vita sulla base di molte testimonianze e fatti che mi sono stati raccontati. Ho dovuto agire a volte come un restauratore di opere d'arte e a volte come un bravo enigmista con l'intuizione per quelle piccole parti mancanti. Certamente Hemingway è stato ad Acciaroli e, conoscendolo, se è rimasto una decina di giorni, vuol solo significare che si è trovato bene, fu accolto bene e questo è certamente un merito della gente di Acciaroli che non lo ha lasciato andar via dopo poche ore, così come lui era solito fare quando non si sentiva a suo agio. Certo posso immaginare anche altre cose. Ma quel che più conta ora è che è reale e non una chimera la sua permanenza nel Cilento”.
Chi è quest’architetto lucano…
“I fatti mi sono stati raccontati da più persone fra Cuba e Venezia, compreso Bobo Ivancich, nipote di Adriana . L'architetto è realmente esistito ma è morto. Era di Matera, è scomparso in circostanze abbastanza misteriose”.
Torniamo alle certezze di questa storia così affascinante ed intrigante…
“L'unica cosa che si sa, perché è documentata, è che Ernest e Mary rientrarono a Venezia dopo una ventina di giorni, dopo viaggi e soggiorni. Si suppone quindi che furono più o meno una decina di giorni quelli passati ad Acciaroli”.
Il soggiorno durò poco perché lì successe qualcosa…
“Sì, Hemingway mise gli occhi su una bella cilentana e la cosa fece arrabbiare Mary che abbandonò Acciaroli e se ne tornò a Napoli. Hemingway fu costretto a raggiungerla lì”.
Lei però non crede all’ambientazione cilentana de “Il vecchio ed il mare”.
“E certamente qualche influenza sul romanzo “Il vecchio e il mare” ci potrà essere stata, Hemingway era uno che si annotava ogni cosa utile al suo lavoro letterario. Io non credo che fu “solo” un pescatore di Acciaroli a fare da “modello” per il personaggio di Santiago nel romanzo che fu alla base del successo del Premio Nobel”.
C’è però la decisa presa di posizione di Fernanda Pivano, che più volte ha decisamente negato questo soggiorno cilentano di Ernest Hemingway…
“Fernanda Pivano è un mito intoccabile. E come tale va rispettato. In breve. Avrei dovuto lavorare con lei per la sceneggiatura di un film sulla vita di Hemingway legata al periodo cubano (di cui Nanda Pivano sapeva ben poco se non le poche informazioni datele da Mary Welsh per telefono) ma ho dovuto rinunciare proprio perché le cose fondamentali di E. H. (ivi compresi alcuni segreti) a lei sfuggivano. Ernest non le raccontava tutto ed è facile per molti addetti ai lavori intuirne le ragioni. Molti dei fatti che riguardavano le sue relazioni extraconiugali facevano parte della cassaforte mentale dello scrittore. Se poi Fernanda Pivano avesse ammesso il viaggio al Sud del suo “amato” scrittore, avrebbe dovuto ammettere tante altre cose che Lei, Fernanda Pivano, si negava non solo per mancanza di conoscenza (il che può accadere a qualunque biografo) quanto per un autocensura per quel che riguardava in particolare Adriana. E questo accade soprattutto oggi, contraddicendo persino molte cose che ha scritto a proposito appunto della stessa Adriana”.

Oreste Mottola

Mariarosaria Capozzoli: dai missili alla direzione nazionale del Pd

E’ di Felitto, ha 34 anni è ingegnere chimico. Viene dai ds

“Quando Bersani ha pronunciato il mio nome che volete… sono sbiancata…”. I fusilli, perché non c’è abitante di Felitto, che non vi abbia a che fare, il canto del vino, dal nome dell’aglianicone della cantina di famiglia, e poi … i missili, arrivati nella sua attività professionale di ingegnere chimico. Ecco Mariarosaria Capozzoli, 34 anni, componente della direzione nazionale del Pd di Pierluigi Bersani. Attualmente lavora presso la Mbda che è tra i primi costruttori mondiali di sistemi missilistici. Una democratic nell’industria bellica? “Sono dipendente dell’Altran, impegnata in attività di laboratorio, seguo l’attuazione delle normativa per le sostanze pericolose dove ci portano le nostre commesse, e così adesso presto lì la mia opera, da consulente…”, precisa. Poi c’è la politica. “Quando Tonino Cuomo mi ha detto che aveva appena fatto il mio nome per entrare nella direzionale nazionale del Pd, sì mi sono emozionata per un attimo, poi l’ho ringraziato per la gratificazione che stava dando, attraverso di me, a tutte le donne della mia terra, ai giovani che studiano duro e a chi pensa che il successo è la capacità di affinare i propri talenti, e non altro….”. “L’ingegnera”, come la conoscono nel suo paese, è stata sempre attratta dall’impegno civile. “Chiedete ai miei professori ai tempi del liceo, a Roccadaspide, dalla Onnembo alla Tabano, Capuano, già ero vivace assai”. Poi c’è l’università a Napoli, segue la specializzazione a Milano in ricerca industriale, due lingue straniere parlate fluentemente, Mariarosaria Capozzoli è attiva nei gruppi della sinistra universitaria. Poi c’è la segreteria dei ds di Felitto e le attività con Ideura, un centro studi politico, animato da giovani vicini all’allora Margherita ma con vistose contaminazioni più a sinistra. “Il lavoro mi porta fuori, ma il mio cuore resta qui a Felitto, ed in questa Valle del Calore che è l’area territoriale più interessante di una provincia di per sé straordinaria”. Nel paese del fusillo è prima consigliera comunale con il sindaco Maurizio Caronna che la manda a fare l’assessore nell’Unione dei Comuni dell’Alto Calore (che riunisce sei paesi) e nell’Ato Sele. Nella federazione provinciale del Pd è la responsabile per “ricerca e sviluppo”. Il 2009 della politica non era cominciato bene, Mariarosaria Capozzoli manca per due voti la rielezione al consiglio comunale di Felitto ed è fuori dal direttivo del Parco del Cilento, colpita dal fuoco amico di Natalino Barbato, già sindaco di Stio. “L’ingegnera” è una tosta, che non si abbatte. Come altre donne di Felitto: da Vienna Cammarota a Giuseppina Di Stasi, da Elvira Morena a Maria Luisa Gatto. “La mia voglia di impegno politico non dipende certo dalla gratificazione di un incarico…” e continua. Con la sua auto è sempre in corsa tra la sua Felitto, il paese dell’animo, l’hinterland di Napoli dove lavora, e Lancusi dove spesso è costretta a pernottare. “Chi mi conosce, mi frequenta conosce il mio senso di sacrificio, abnegazione e lealtà. Anche quando ho ricevuto dei torti ho continuato a combattere…”. Un altro filone della vita di Mariarosaria è la viticoltura. Con il fratello Gianvito, agronomo, ha messo su “Cantina Rizzo”. La ricetta è quella già sperimentata nel resto del Cilento: aglianico al posto del barbera, riduzione delle altre uve presenti e, soprattutto, rivalutazione dell’aglianicone, un clone presente da tempo immemorabile nella Valle del Calore. “Una scelta moderna che affonda nella tradizione”, commenta, e si mette a decantare le qualità del “Canto della Vigna”, questo il nome del top wine della cantina della democratic che da chimica di professione ed ha scelto la missione di combattere le sostanze pericolose. Sul Corriere della Sera così la presenta Simona Brandolini, cronista politica di razza: “La sorte le ha dato anche il primo posto. Mariarosaria Capozzoli, apre così la lista delle venti personalità scelte direttamente dal segretario nazionale del Pd, Pierluigi Bersani, per dare lustro ad un partito che qualche coordinata in più già ce l’ha. E così tra Miriam Mafai, di cui è superfluo anche parlare, Pietro Ichino ed Alfredo Reichlin, c’è questa “ragazza di paese” così si definisce, di 34 anni. Una donna che fa “un lavoro maschile”, l’ingegnere chimico. (…). Con lei le altre due personalità campane selezionate sono Vincenzo De Luca, sindaco di Salerno e la sindacalista Anna Rea”. Auguri Mariarosaria, tosta ragazza di paese.

Oreste Mottola

Gigino Di Lascio, il professore delle utopie concrete

Oreste Mottola (*)



"La dimostrazione matematica dell'esistenza di Dio secondo K. Godel, conferenza a cura del professore Luigi Di Lascio", diceva il cartello che dava appuntamento nella sala conferenze della biblioteca comunale di Capaccio Scalo. Il 30 marzo, l'anno scorso, di venerdì, presi di sorpresa, trenta - quaranta persone, discussero di religione. Sì perché Gigino Di Lascio, come nella sua Capaccio era universalmente conosciuto, prima di tutto era francescano: a San Francesco D'Assisi fece intitolare perfino il suo condominio. Era poi fuzzysta, un linguaggio che unisce matematica e logica, una disciplina che lui andava ad insegnare in serie università inglesi ed americane e che serve per creare software biomedico. Sui sistemi fuzzy il primo corso universitario in Italia lo ha tenuto lui. E poi? Era un "anticotrenista", una strana congrega che discetta di binari e difende i diritti dei pendolari, alla testa, "ma senza tessere, dirigenti e gerarchie" - sento che me lo dice da lassù - con l'amico Sergio Vecchio. La sua massima di vita? "Prima di tutto viene la modestia, perché così qualche cosa sempre l'accucchi". L'accumuli, la metti assieme. Gigi Di Lascio amava incastonare la parola cilentana nel suo discorrere. Comunista? Da ex sessantottino lo era stato, ma la preminenza l'aveva data sempre al cristianesimo. Poi c'era l'ironia. Ed il senso della sua comunità, di una Capaccio - Paestum che metteva sopra ad ogni cosa, lui che pure - per le sue frequentazioni - apparteneva al mondo. Era stato anche il fondatore della Croce Rossa locale, vi ha lavorato per anni, dalle 6 alle 14, ogni domenica. "L'unica cosa che mi dispiaceva era vedere che gli autisti delle autoambulanze che correvano troppo. Era necessario, però...". Difensore della Costituzione del 1948, animatore della battaglia per riaprire il cinema Myriam. "Una vita tra scienza e politica", abbiamo titolato su di te a "Il Mattino" ed io sono sicuro che questa volta avresti approvato, magari prendendotelo come slogan per l'ultima campagna elettorale della sua vita, arrivata ad oltre trent'anni da quelle vissute da giovane. Ma pieno di energia ed entusiasta. Sulla soglia dei sessant'anni confessavi di avere ancora il sogno di fare un film o recitare in una commedia teatrale. Con Andrea D'Ambrosio e Alberto Franco ci lavorava ad un film - documentario sul pellegrinaggio a piedi - del 15 agosto - della gente della Piana del Sele verso la Madonna del Granato. C'eri sempre, in prima fila, da semplice fedele. "Prima o poi incontrerò un greco antico, vestito di bianco e con i sandali ai piedi, che si unirà a me", confida ad Andrea D'Ambrosio.

In redazione, ad "Unico", ci venne con Sergio Vecchio. Era accaduto che un sindaco di Capaccio avesse annunciato che nei dintorni di Paestum ci fosse bisogno di altri 20mila posti letto. Lui fece i conti sulle poche centinaia di decimetri quadrati sarebbero restati a disposizione d'ogni bagnante. "Mò sta cosa se tu la pubblichi è quello chi si metterà le mani nei capelli e dirà chist' è turnate e che bbole mò...". Perché per oltre due decenni Gigino Di Lascio si era dedicato a fare il professore ed aveva abbandonato l'attività politica. E da quell'intervista, nata per caso, nacque un rapporto che è andato avanti per almeno cinque anni. Eravamo di paesi diversi, e dalle nostre parti la globalizzazione è arrivata in ritardo, e sotto ad un campanile c'è ancora un mondo che una volta era quasi esclusivo, per non dire totalizzante.

Io ero "il giornalista amico", e ti pressavo per avere i tuoi articoli da mettere sul nostro giornale. Poi ti rapì la voglia di impegno politico diretto. Non scrivevi più, correttamente, com'era nel tuo stile. E si creavano pure screzi. Momenti che tu superavi subito. "Va bene così. Non sono d'accordo, ma prendo atto. Andiamo oltre, però...", era tutto ciò che dicevi. Ciò che ti stava a cuore era "la rinascenza", infondere nella moderna Capaccio lo spirito che animava la più bella delle città della Magna Graecia. Dove venne inventata la democrazia. E nessuno si ammalava, raccontavi.

Ciao Gigino, per noi sei stato tu l'antico pestano sapiente che sognavi di incontrare.



(*) Condirettore del settimanale "Unico" di Capaccio - Paestum, corrispondente de "Il Mattino" .

Franco Brusco, una vita da libero

Il politico di Vibonati raccontato attraverso la sua passione per lo sport e per la libertà

Giocava da libero Franco Brusco, quando si pagava gli studi superiori con la sua attività di calciatore nelle categorie semiprofessionistiche, nel Gelbison Vallo e nei dintorni. Alla prima laurea, in lettere, ci arriva insegnando contemporaneamente nei paesini più impervi tra il golfo di Policastro e la Calabria. Quando arriva ad insegnare nei licei classici si fa prendere dalla sirena della politica e torna nella scuola media del suo paese. Una storia che a scriverla servirebbe la penna di Osvaldo Soriano. La seconda laurea, in giurisprudenza, l’agguanta con rabbia quando “purtroppo è in voga la caccia ai socialisti”- come amaramente ricorda - ed un giudice della zona si applica a chiudere certi conti in sospeso che riteneva di avere con chi si era opposto al suo strafare. Qui avremmo dovuto affidarlo minimo ad un Leonardo Sciascia, perché ci sarebbe anche da raccontare anche il livore di certi settori “altolocati” contro il figlio del calzolaio di Vibonati, questo è il suo paese, poco più di 2mila abitanti, che scala tutti i gradini del successo. Il resto fa parte del suo cursus honorum: l’elezione a sindaco nel 1972, e dal 1975 in poi assessore provinciale, e dal 2001, deputato ed attualmente consigliere regionale del Mpa. Il suo percorso politico è lineare nella prima parte, socialdemocratico prima e socialista dopo. Nella seconda repubblica è dapprima nell’Udc, poi con Forza Italia ed infine con gli autonomisti di Lombardo. Sposato, ha due figli, e nasce in una Vibonati che è ancora sotto il fascismo. Lui cresce sui ritmi del padre che andava a vendere le scarpe che costruiva da solo e poi vendeva muovendosi in treno nei vari paesi vicini. E’ la sirena della ferrovia che lo avverte che deve smettere di giocare a pallone rientrare a casa, farsi trovare sui libri. “Il resto lo faceva la mia ottima memoria”. E sotto il segno del calcio nasce anche la sua prima lista alle elezioni comunali di Vibonati: “La terza via, era il motto del nostro gruppo che voleva così rompere il monopolio delle due fazioni che avevano portato il paese quasi in una situazione da guera civile. Gli avversari, per dileggiarci, ci chiamavano “la squadra di pallone”, così come in effetti era visto, venivamo tutti dall’esaltante esperienza della squadra locale. Facendo comizi ogni sera, battendo il paese in ogni angolo, grazie all’entusiasmo giovanile, vincemmo. Fu così che diventò sindaco. Dopo qualche anno di combattimenti molto aspri, i maggiorenti del paese, tentano di farmi decadere da primo cittadino. E la gente che fa? Si scatena una sommossa e c’è l’occupazione del municipio. Io resto lì a furor di popolo. Ovviamente scattano le denunce per tutti e, da Casalvelino, arriva un avvocato a difenderci tutti: è Paolo Correale, esponente del Psdi di allora. Correale intuisce il valore generale della nostra storia di giovani che tentavano di prendere nelle loro mani il loro destino e mi fa candidare alle elezioni provinciali. Io prendo il 29% e sarò l’esponente di quel partito più votato in tutta Italia”. Il resto della carriera è sul suo sito Internet: “Per ben cinque consiliature sono stato consigliere provinciale con incarichi di responsabilità come assessore ai Lavori Pubblici e vice presidente della Provincia di Salerno. Sono stato eletto il 16 aprile 2000 al Consiglio Regionale della Campania, ricoprendo l’incarico di Consigliere Segretario dell’Ufficio di Presidenza. Successivamente nel 2001 eletto deputato (Collegio 21 di Sala Consilina) rieletto nel 2006, attualmente sono Vice Capogruppo dell' Mpa e componente di molte commissioni”. Franco Alfieri, attuale assessore ai lavori pubblici e sindaco di Agropoli, ha pesantemente attaccato Brusco dicendo: “nessuno si è mai accorto del suo operato”. La replica non si fa attendere: “Il suo invece si può vedere soprattutto nella cura e nella robustezza di certi muri vicinali dalle parti di Torchiara. Il sindaco di Agropoli è stato irriguardoso perché io avevo appena lasciato quella stessa sala. Ha approfittato della mia assenza. Io però ho governato in anni di vacche magre e con giunte instabili”. Resta il segreto di un uomo che sulla soglia dei sessant’anni riprende a frequentare l’Università e che è sempre uscito vincente dai tanti scontri che la politica offre ogni giorno. “Resto il calciatore convinto sempre che la miglior difesa sia l’attacco e che se sei piccolo e nero hai una speranza se imbrocchi subito la via d’uscita giusta ed usi con intelligenza catenacci e contropiede”. Sarà un caso ma il passato di calciatore è presente anche in altre storie di politici di lungocorso delle nostre parti. Basterà citare il caso di un mediano che con le buone o con le cattive fermava avversari fisicamente o tecnicamente meglio attrezzati, anche con calcioni spezzagambe. Il suo nome? Carmelo Conte. Non a caso da sempre un grande estimatore del “libero” Brusco. Un difetto? Fuma come un turco dovunque può e non ha intenzione di smettere.

Oreste Mottola

Un secolo di vita attraversato da Fiorinda Grippa

Un secolo di vita attraversato da Fiorinda Grippa
“Una grande donna. Che si è sacrificata per la sua famiglia, l’assistenza alla madre e la crescita delle nipoti, ma che ancora oggi segue tutto quello che avviene a parenti anche lontani ed amici. Sempre animata dalla fede…”. Chi la conosce bene così descrive Fiorinda Grippa. Fiorentina lo è per l’anagrafe, Fiorinda l’hanno chiamata così tutti, quasi a partire dal 22 dicembre del 1909 quando nacque tra Falagato ed il Feo, terre fertili d’estate e veri e propri acquitrini d’inverno. Ora nonna Fiorinda, circondata dalle tre nipoti Antonietta, Lucia e Gerardina Guarino, è arrivata al secolo di vita e si preoccupa dei preparativi della sua festa che si concluderà al Sentacrutz di Eboli. “Ha voluto bene a tutti ed ora vorrebbe far partecipi non solo i parenti ma le tante persone che ha sempre frequentato, a partire dai medici che la curano”, aggiunge la nipote Antonietta. Ricorda la sua giovinezza Fiorinda, trascorsa a lavorare sulle terre del barone Ricciardi, al “Varrizzo”, ovvero Ponte Barizzo, come accadeva a tante famiglie di Altavilla ed Albanella. “Io, siccome ero la più piccola andavo a prendere l’acqua da bere al Brecciale. Mio fratelloLuigi conduceva i buoi. Con mio padre, mia madre e mia sorella si lavorava tutti uniti. Zappuliavamo il grano. Cantavamo o ci raccontavamo i cunti della Madonna. Poi a sera si tornava con l’asino”. Mattina e sera a piedi, dalla Piana d’Altavilla fino a Capaccio, per almeno due ore all’andata ed altrettante al ritorno, sull’asino si portavano piccole some. Sono gli anni terribili della Grande Guerra, tutto è requisito o requisibile, i giovani sono tutti lì a farsi massacrare nell’inutile strage, come la chiamerà il Papa di allora. A questo si aggiunge la “Spagnola”, la terribile epidemia che farà – solo in Italia – altre centinaia di migliaia di morte. Non tornerà dal fronte intorno al Piave suo suocero Antonio, “ci dissero morto a Gorizia, ma chissà”, ricorda, e si commuove, Fiorinda. Chiede alle nipoti di far vedere la medaglia. La Guerra finisce e la vita ricomicia. Fiorinda non va a scuola, “da noi non c’erano maestri”, ricorda oggi, ma è più probabile che non ci fossero solo per le bambine del tempo. E’ diseducativo farle imparare a scrivere perché poi potranno scrivere ai futuri fidanzati, si diceva.
La svolta.
Una volta all’anno, alla festa della Madonna della Neve, Falagato e il Feo diventavano affollatissimi. I fedeli non scendevano solo dalle colline di Altavilla, ma anche dai paesi dell’entroterra, soprattutto Castelcivita. L’eco del ritrovamento della statuina, a seguito del prodigioso sogno di Antonio Di Masi, è ancora vivo. Le cronache del tempo parlano di decine di migliaia di persone che accorrono. E di scavi spontanei alla ricerca di reperti religiosi, segue un processo a danno dei parroci altavillesi che non smentiscono il miracolo. Tra tutte queste persone c’è un giovane alto e con gli occhi azzurri che con determinazione non ha voluto fare più il contadino ma è un provetto muratore e carpentiere. Si chiama Rosario Garofalo, ha anche studiato ed ha modi assai distinti. Fiorinda se ne innamora e decide che quello è l’uomo della sua vita. “Anche perché, pensai, questo ha un mestiere e possiamo costruirci più facilmente la casa”. Rosario, ovviamente, capitola di buon grado.
La giovinezza
Casa, famiglia e lavoro nei campi. Questa fu la vita di Fiorinda durante gli anni Trenta. Nel 1932 arriva l’unica figlia, Carmelina. La bambina è molto studiosa e le sue pagelle piene di bei voti sono gelosamente conservate. La guerra, arrivata nel suo pieno svolgimento nel 1941, si prenderà Rosario. Dai fronti di combattimento però trova il modo di scrivere quasi ogni giorno alla moglie: sa che ci sarà Carmelina a leggerle a Fiorinda. Fatto prigioniero dagli Alleati viene trasferito, per oltre due anni, ad Orano, in Algeria. E Rosario continua a scrivere a Fiorinda e Carmelina le legge e le comprende.
Il dopoguerra
La Guerra finisce, Rosario torna a casa e la vita della famiglia Garofalo riprende a scorrere serena. La ricostruzione prima ed il boom economico dopo rendono la professione di mastro Rosario molto richiesta ed anche discretamente redditizia. Ed arrivano gli agi: “Una bella casa. Il primo frigorifero, il primo apparecchio televisivo. Le nipotine”. La vita scorre tranquilla. Rosario ogni domenica va in paese e porta in dono alla moglie qualche dolce di Verrone, gli compra i collant di nylon. Ogni mattina è lui che gli porta il caffè a letto. Tenerezze e la dimostrazione di un amore profondo che a quei tempi era molto inconsueto. Il destino però ha deciso diversamente. Carmelina si ammala, e giovanissima, a soli 42 anni, si spegne. Ha anche tre bambine. Un dolore immenso, indescrivibile ed incommensurabile. Ed è qui che Fiorinda tira fuori la sua grande forza d’animo. Dopo aver assistito per sei anni sua madre si ritrova a prendersi cura delle sue uniche nipoti. “Me la ricordo camminare con quella sua cesta portata sulla testa, con dentro di tutto, e l’asino per i carichi pesanti”, ricorda Antonietta.
La vecchiaia
La lascia anche Rosario, il suo compagno di vita, quando ha ottant’anni. Ed anche Fiorinda comincia ad essere soggetta a malanni molto seri. Tumori e cardiopatia, per dire. Ed ogni volta, smentendo le pessimistiche previsioni mediche Fiorinda ce la fa. Ha l’appuntamento con il secolo di vita da toccare. E la piccola, adorabile, debolezza per tutto ciò che è bello e che vede indossato dai più giovani. “Si tiene aggiornata”, commenta una delle nipoti. L’aver opposto l’amore alle traversie che non l’hanno risparmiata, le più dolorose per una madre, è forse il segreto di “Nonna Fiorinda”, che idealmente rappresenta tutte le donne d’Altavilla.
Oreste Mottola

Le banche di Credito Cooperativo di Alburni, Cilento e Vallo di Diano perplesse sulla Banca del Sud di Tremonti

Oreste Mottola
Il tema del convegno era "Banca del Sud e Bcc: prospettive di sviluppo per il territorio cilentano", organizzato dal mensile “Cilento”, e si è svolto venerdì sera a Roccadaspide. Perorazioni di principio a parte il dibattito ha voluto misurare quanto sia ancora in piedi il progetto del ministro Giulio Tremonti di una “Banca del Sud” che dovrebbe sostenere i progetti d’investimento meridionale anche con l’emissione di bond a sostegno della creazione d’infrastrutture. E se è ancora sul tappeto, è di qualche utilità? O si rischia di creare solo doppioni e diseconomie? In prima fila ci sono gli uomini che fanno funzionare la macchina delle banche di credito cooperativo nate nelle non floride zone interne della provincia di Salerno e che adesso con un’espansione “a macchia d’olio” sono arrivati in Calabria, in Lucania ed apriranno sportelli a Salerno – città. Sono Antonio Marino (Aquara), Michele Albanese (Roscigno), Antonello Aumenta (Sassano) e Ciro Solimene (comuni del Cilento). Dovranno essere queste banche, nell’idea finora espressa da Tremonti, a dare vita al nuovo istituto. Al confronto di Roccadaspide doveva essere presente il loro presidente nazionale, Alessandro Azzi, ma il banchiere bresciano ha disertato l’incontro e inviato un messaggio, dove parla di “riservatezza su materie di estrema delicatezza e ancora oggetto di confronto istituzionale”. Tutti i direttori generali delle Bcc intervenute hanno, pur con le cautele del caso e la prudenza del ruolo, bocciato il progetto tremontiano. Dell’orizzonte economico più generale si è occupato Aurelio Tommasetti, direttore del Dipartimento Studi e Ricerche aziendali della Facoltà di Economia presso l'Università di Salerno. “Le vostre imprese sono troppo sottocapitalizzate ed hanno vita troppo breve”, è la sua analisi. Utile allora una “Banca del Sud”: Siamo di fronte a “nebulosità”, commenta Michele Albanese. “Costruiamo invece un Mediocredito del Sud”, chiede Solimene. “Rimedio peggiore del male” è la valutazione di Aumenta. Conclude Marino: “C’è il rischio di avere un altro problema per il Sud”. Il direttore della Bcc di Aquara però concede l’apertura di credito all’iniziativa che dal Nord vorrebbe venire ad imprimere un’accellerata allo sviluppo del Sud. “ Sì al nuovo istituto purché non venga calato dall'alto” è la sintesi che ha proposto Gabriella Pederbelli, cronista de “Il Denaro”, il quotidiano economico campano. Nessuno nega che una “Banca del Sud” intesa come l’avvio di nuovi strumenti di finanziamento dell’economia meridionale, può essere utile innanzitutto allo sviluppo del territorio cilentano. Qui – lo raccontano i direttori delle banche che godono di un osservatorio privilegiato – la crisi è arrivata prepotente e morde ai polpacci famiglie ed imprese. "Ma necessita – spiega Antonio Marino, direttore della Bcc di Aquara - che da opportunità si materializzi concretamente e che non venga calata dall'alto senza tenere conto di quelle che sono le vere esigenze di quanti operano sul territorio. Occorre scuotere la coscienza di tutti i soggetti interessati rispetto alle istanze provenienti dalla cittadinanza. Altrimenti non sarà la Banca del Sud, o altri istituti, a poter determinare gli scenari favorevoli ad una ottimizzazione delle attività care alla gente che vuole impegnarsi effettivamente per un futuro ed una qualità della vita migliori".
Agostino Gallozzi, presidente di Confindustria Salerno, valicando ogni eventuale contrapposizione fa invece appello al sistema bancario. "Chiediamo attenzione – spiega il numero uno degli industriali salernitani - per chi fa impresa e si vede costretto a fronteggiare una crisi di mercato strutturale più che legata alle dinamiche delle singole attività. Ogni imprenditore – aggiunge il presidente di Confindustria Salerno in un intervento telefonico al convegno – vorrebbe il meglio per la sua azienda e per chi in essa è impiegato, non sempre il traguardo viene raggiunto per demeriti di entrambe le parti. Così invitiamo chiunque a valutare che si tratta di storie di uomini oltre che di percorsi aziendali considerati avulsi dalle comunità".
Il sistema territoriale delle Banche di Credito cooperativo, spiegano i dirigenti locali, "già offre il sostegno necessario allo sviluppo previsto dalla Banca del Sud" i cui elementi che ne ispirano la costituzione sono stati illustrati
Girolamo Auricchio, sindaco di Roccadaspide, racconta di quando da queste parti c’era solo il Banco di Napoli ed era “inavvicinabile". “Le Bcc – spiega Auricchio – hanno fatto la fortuna di questo territorio. Hanno affiancato nelle loro necessità imprendiotori e studenti. Aquara poi ci ha affiancato nella nostra opera di sostegno al nostro Ospedale, finanziando anche l’acquisto di diverse attrezzature. Maurizio Caronna, sindaco di Felitto e presidente dell'Unione dei Comuni del Calore, è stato più tecnico: “Abbiamo bisogno di più flessibilità da opporre al precariato. I business delle nostre imprese hanno cicli troppo brevi”. “La verità – ha spiegato Geppino Parente – primo cittadino di Bellosguardo – è che questo governo non ha uno straccio di politica economica e procede per spot. La voce degli imprenditori è stata quella dall'amministratore di "Agri Oil" Gabriele Quaglia e da Fernando Morra, della cooperativa "Il Marrone", che hanno ribadito come tutti sono chiamati a “fare di più”. La pubblica amministrazione, per esempio, deve fortemente semplificare al massimo le sue procedure. “La crisi della finanza pubblica è gravissima e dallo Stato a valanga cala sulla Regione, poi sui comuni e poi sulle imprese”, ha aggiunto Franco Palumbo, sindaco di Giungano. Nel concludere i lavori Antonio Ilardi, presidente del Comitato Piccola Industria di Confindustria Salerno, indica nel confronto continuo la ricetta per evitare che "idee di impresa valide possano naufragare con nocumento oltre che per l'imprenditore anche per le comunità locali".

Capaccio, intervista all'assessore - architetto Eugenio Guglielmotti

Il nostro paese ha bisogno d’aiuto disinteressato
Eugenio Guglielmotti fa il punto sulla situazione delle strutture per la cultura e l’istruzione pubblica


“Sto con quelli che vogliono bene a Capaccio e che quando il paese reclama il loro contributo si danno da fare perché lo sentono e non perché già pensano a come ascriversi il merito magari con un manifesto affisso sui muri, e con dichiarazioni roboanti sui giornali”. Eugenio Guglielmotti, assessore alla pubblica istruzione, è fatto così e vorrebbe che anche gli altri lo seguissero su questa strada. “Mi ha fatto molto male vedere – continua – com’è stato trattato il preside Angelo Capo nell’ultimo anno. Il liceo scientifico Piranesi è più di un suo figlio. Capo ha prima voluto a Capaccio una sezione staccata di quello di Agropoli, poi lo ha reso autonomo ed infine ne ha fortissimamente voluto una nuova e finalmente funzionale sede. Si è preoccupato di far terminare i lavori e, trasferendovi i ragazzi, ha “costretto” chi di dovere a fare ciò che doveva. Tutto l’iter per arrivare alla nuova scuola l’ha seguito passo dopo passo. Ha salvato e rilanciato l’istruzione superiore. Contro di lui si è sollevato il centrodestra locale che alla fine ha perfino voluto dare all’amministrazione Cirielli… “il merito” di aver ultimato la struttura in nove mesi Pur non essendo la problematica di competenza del Comune di Capaccio, mi corre l’obbligo di precisare che l’ultimazione del Liceo era stata già deliberata dalla precedente Amministrazione Provinciale. I lavori furono sospesi dall’Amministrazione Cirielli in attesa di verificare (forse anche giustamente) i conti dell’Ente. Ecco cosa è stato in realtà “FATTO”: hanno sprecato nove mesi (un intero anno scolastico), dimenticandosi perfino di provvedere all’autonomo allaccio della corrente elettrica. Il solitamente compassato Guglielmotti s’infervora ed affronta anche il capitolo della scuola Alberghiera, e sottolinea che la raggiunta autonomia dell’Istituto ha origine da un’intuizione del preside Di Matteo e da una sua proposta risalente al 2007. Non c’è dubbio, però, che tutto l’iter abbia avuto inizio con la richiesta dell’attuale Giunta Comunale (non risulta agli attiinfatti l’impegno di nessuna precedente amministrazione). La richiesta è stata accolta dalla Giunta Provinciale, grazie al ruolo che il Preside Di Matteo ricopre nell’apposita commissione provinciale, e grazie all’interessamento dell’assessore Miano. La successiva delibera della Giunta Regionale ha concluso favorevolmente l’iter. La Regione poteva,bocciare il Piano del Dimensionamento Scolastico approvato in Provincia, ma ciò è stato evitato grazie al mio personale interessamento. Per tutto ciò, egr. prof. Di Matteo, il sindaco di Capaccio, che è persona leale ed intelligente, ha apprezzato riconoscendo pubblicamente il lavoro svolto. Nessun ridimensionamento del mio assessorato è intervenuti con la Istituzione “Poseidonia” e con la nomina a Presidente di Corrado Martinangelo. Poseidonia è stata istituita con delibera di C.C. già nel 2008, ed è una struttura funzionale del Comune, soggetta alle direttive del sindaco, dell’assessorato alla cultura, e di quello al turismo, sport e spettacolo. Preside, per cortesia, non si lasci coinvolgere in una battaglia politica locale che va lasciata ai capaccesi. Lei ha fatto tanto, glie ne diamo atto e la invitiamo a collaborare con le istituzioni locali per conseguire il bene collettivo”.
Il resto del “rapporto alla città” di Guglielmotti è fatto di realizzazioni e di “un’invisibile azione”, come la chiama lui, per dare sicurezza a chi frequenta le 26 scuole capaccesi. “Sono più che a Salerno”, annota. Si parte da un check up completo “costato 37 mila euro” solo per effettuare le indagini geofisiche sulle strutture. Ogni edificio è stato analizzato nella sua “storia” costruttiva. “Siamo stati severissimi, ma i dati, seppure ancora ufficiosi, ci fanno stare tranquilli”, annuncia. Certo, ci sono degli interventi da fare, ma adesso abbiamo gli strumenti per programmarli secondo le priorità. “La regione Campania per questo ci ha elogiati e ci ha indicati tra i Comuni da adottare come modello, racconta.
Un altro importante passo Guglielmotti lo “prospetta” per Capaccio Scalo. “Passeremo da borgata sorta intorno ad un quadrivio a città quando grazie ad un progetto di finanza avremo un Polo Culturale che comprende una sala convegni da 350 posti, una vera biblioteca e diverse sale espositive, oltre a 2000 mq di spazi pubblici, verde attrezzato e parcheggi. L’investitore in cambio otterrà la copertura in pannelli fotovoltaici, un irrisorio canone annuo e il diritto edificatorio di alcune palazzine per civili abitazioni”, il tutto nel rispetto del vigente PRG. Il progetto è stato già approvato dalla apposita commissione, e sarà oggetto di uno dei prossimi Consigli Comunali, ad inizio marzo. Un altro tassello, nella stessa direzione, sarà dato dalla riqualificazione delle scuole elementari e medie, grazie ad un progetto presentato alla Regione Campania lo scorso gennaio. “Le recinteremo e le uniremo tra di loro attraverso un ponte. Avranno una nuova palestra omologabile e refettori così da rendere possibile anche l’apertura pomeridiana”. Un’edificio scolastico da 700 mila euro entro il prossimo anno scolastico sarà a disposizione della comunità di Borgonuovo. Alla Licinella c’è la disponibilità dell’ingegnere Lupò a cedere un’area a servizio della scuola, mentre in altre realtà con il Puc da approvare arriveranno anche le soluzioni a tanti piccoli e grandi inconvenienti. Ultima “chicca” sono le centrali termiche rinnovate che ogni scuola ha avuto. “Ringrazio chi, in un silenzio operoso, mi ha aiutato finora e continuerà a farlo, per rendere Capaccio sempre moderna e civile ed al passo con i tempi”, è la conclusione dell’assessore Eugenio Guglielmotti.

Oreste Mottola

Alfonso Amato: “io il sindaco della love generation ”

Alfonso Amato: “io il sindaco della love generation ”

“Ho così tanto amore nel mio cuore nessuno può allontanarlo da me”, diceva la canzone , però in inglese, che lo accompagnava durante tutta la sua campagna elettorale comunale. Non tutti lo capirono ma così è stato. Stava con la Dc da giovane,ha conosciuto l’Udeur da adulto, lasciata per i fatti di Serre ed il contenuto delle intercettazioni di Bertolaso che su Serre faceva capire di poter disporre di uomini in loco del partito di Mastella, per il Pd di Alfonso Andria per poi finire alla corte di Paolo Ferrero. Nell’ultimo passaggio ha influito la durissima contestazione che ha inscenato nei confronti di Vincenzo De Luca “persecutore” di mendicanti e lavavetri. E’ la storia politica di Alfonso Amato, sindaco di Sicignano degli Alburni. Che ha avuto il suo picco più alto quando nella nera notte dello sgombero degli extracomunitari da San Nicola Varco con un pulmino se ne andò a prendere diverse decine e se li portò nella sua Sicignano. Il suo paese si divise, una parte l’osannò ed un altro simpatizzò con chi aveva osato addirittura alzare le mani su di lui. L’esordio ufficiale nell’agone si può datare al 2 aprile del 2006, quando prese la rincorsa per la sua campagna elettorale scrivendo ben quattrocento pagine di programma. E sotto ci mise “Love generation”, motivetto facile facile di Bob Sinclair, già stato utilizzato per una pubblicità della Tim, giusto quella canzone che inneggia all’amore universale. Amato vince ed emoziona tutti alla cerimonia per l’insediamento. Quando gli danno le chiavi del municipio, le mostra alla folla accorsa e proclama: “Sono e saranno a disposizione di tutti. E’ roba vostra, ognuno di voi deve sentirsi sindaco di Sicignano”. Poi invita le persone che se ne stanno sulla soglia ad entrare, “ad occupare ogni spazio, gli stessi banchi se necessario”.
Ma in agguato c’è la reazione di Pizzicara. Oltre ad essere sconfitto politicamente è anche dirigente scolastico. All’inizio del 2007 si va a riprendere le sedie dell’aula consiliare, solo due giorni prima della celebrazione di un consiglio comunale. “Sono della scuola. Amato lo avevo avvertito. Mi servono per far accomodare degnamente oltre 80 insegnanti per un’adunata plenaria del collegio dei docenti. Potevo farli mai stare in piedi?”.
La ribalta provinciale a “tenta” spesso Alfonso, l’avvocato. Comincia già nell’estate del 2006 quando scrive, stampa e fa affiggere un manifesto che “apre” la sua Sicignano ai napoletani che Sergio Vessicchio vuole cacciare da Agropoli. S’indigna sulle sparate “da sceriffo” di Vincenzo De Luca, sindaco di Salerno, su mendicanti e lavavetri. «Chi avrá problemi con la giustizia potrá rivolgersi a me, vi difenderò in maniera gratuita».
Oreste Mottola

domenica 14 marzo 2010

Padre Antonio Polito, il missionario

Avrebbe fatto il missionario. Lo decise da bambino ascoltando i racconti di don Antonio Cortazzo al Seminario di Altavilla Antonio Polito all' età di 74 anni può ben dire di aver concretamente realizzato il suo progetto di vita. E' stato sacerdote, missionario, insegnante, scrittore e giornalista operando nelle zone più impervie e difficili del Brasile e dell' Argentina E sono tante le attività di cui è tuttora responsabile.
Oggi a sentir nominare ltambè ed ltaparica, cittadine dello stato brasiliano di Bahia, si pensa subito al turismo ed alla samba Ma non erano affatto dei posti allegri quando vi arrivò, più di mezzo secolo fa, il missionario altavillese Antonio Polito. Ed il suo volto placido di uomo operoso e paci oso si illumina quando racconta della difficile lotta intrapresa mezzo secolo fa contro la Mafia brasiliana, che, significativamente, si chiamava "impresa della morte", con le sole armi della cultura e della fede, e dell'azione per redimere interi quartieri dalla piaga della prostituzione, dando da mangiare e portando a scuola i figli delle prostitute. O dei rapporti difficili con i padroni delle grandi fazendas.
Vi ha fondato molte scuole e con suor Walkiria Alves de Amorim ha dato vita alla Congregazione delle Suore Volontarie del Cristo Re. Sono davvero multiformi le attività che fanno capo al vocazionista altavillese Padre Antonio Polito. il sacerdote è nato 68 anni fa a Cerrocupo di Altavilla Silentina, figlio di Carmine Polito e di Anna Di Venuta. Nel nostro paese ha frequentato le scuole elementari e quando, nel 1941, i Vocazionisti di don Giorgio Mele aprirono il Seminario, lui fu tra i primi a frequentarlo. E vi veniva a parlare di infedeli da convertire il prete albanellese don Antonio Cortazzo.
Questo fece scattare la "molla" nel giovane altavillese che ebbe poi modo di approfondire l'argomento con l'appassionata lettura di libri e periodici d'argomento missionario. Intanto, al paese, si consumano i drammi legati allo sbarco Alleato del 1943 ed alla furibonda resistenza dei tedeschi. Seppelliti i morti e rimarginate le ferite la vita ricominciava per tutti. Per Antonio Polito il primo dopoguerra fu scandito dalle tappe per arrivare ad indossare l'abito sacerdotale: il Ginnasio, il noviziato, la teologia Nel 1950 viene consacrato sacerdote. Tre anni dopo riesce a concretizzare il sogno di andare missionario: la destinazione è per una località compresa nel golfo di Bahia E' Itambè. Vi arriva perché un giovane funzionario del "Banco do Brasil" si è reso conto che per l'opera di "civilizzazione" della zona in cui è intento c'è assolutamente bisogno della presenza della Chiesa Qui la vita umana contava poco, cosi come le leggi, e la gente era abituata a farsi giustizia da sola Con la parola d'ordine: "Non ammazzate" partì la a prima azione di P. Antonio con una vigorosa campagna di stampa sui giornali locali come Voz de Itaparica e Voz do povo, contro questa sorta di legge del taglione che imperava. Ed erano soprattutto i sicari dei grandi fazenderos a dettare legge in una comunità locale dove vivevano mischiati discendenti di portoghesi, africani, indios ed alcune famiglie genovesi. I coraggiosi Vocazionisti intrapresero cosi una delle loro prime azioni missionarie, anche perché i Salesiani interpellati per prima non se r erano sentita di intervenire in una realtà cosi difficile.
Ma il lavoro di P. Antonio e dei suoi collaboratori diede i suoi frutti: venne costruita una scuola dalle elemèntari alle superiori che arrivò ad avere 600 alunni, si edificò una bella chiesa e l'ambiente locale venne così civilizzato che la polizia adesso gira disarmata. Dai ragazzi educati dai Vocazionisti proviene anche gran parte di quella che è oggi la classe dirigente dello stato: sono deputati, dirigenti di banche, medici e grandi commercianti.
A ltambè don Antonio è stato, contemporaneamente, parroco, direttore di collegio, insegnante di matematica. Vi edificò la Chiesa della Madonna della Grazia. Dopo più di vent'anni di attività missionarie a padre Antonio vengono affidate anche le attività ecclesiali di un'altra città: Vittoria de Conquista. Qui, oltre a fare il parroco, svolge anche importanti incarichi di responsabilità in seno alla ConferenZA dei Vescovi del Brasile.
Nel 1983 P. Antonio decide che è arrivato il momento per andare a svolgere in Africa la sua attività missionaria. Ha già la valigia pronta, quando gli arriva "l'ordine" di recarsi in Argentina, a S. Juan, per occuparsi della vasta realtà delle Ande argentine. Mentre è qui l'altitudine gli gioca un brutto scherzo aggravandogli alcuni problemi cardiaci. La salute gli impone quindi di far ritorno ad ltambè dove ha ripreso a svolgere le sue consuete attività.
GLI ALTAVILLESI A SAN PAOLO DEL BRASILE
Un punto di riferimento degli altavillesi di San Paolo era Francesco Di Venuta, che aveva messo su un'agenzia che procacciava lavoro ai camionisti, mentre i Capopizza facevano i sarti e don Felice Buonafine gestiva un'officina meccanica. Uno dei Suozzo suonava il clarinetto alla tv brasiliana. I Marra avevano iniziato una promettente attività industriale nel settore tessile. In quella piccola comunità si distingueva Andrea Di Masi, self made man dalla personalità poliedrica ed originale, commerciante all'ingrosso di pellami e pastore avventista, emigrato a S. Paolo del Brasile dal 1925.
Gli altavillesi conobbero quest'ultimo quando egli tornato nella Cerrocupo dell'appena iniziato secondo dopoguerra benestante, avvezzo a vivere in con dizioni agiate, si fece notare per il modo originale con cui poneva rimedio all'assenza delle comodità e degli agi che lo circondavano a S. Paolo. Così, ad esempio per ovviare alla mancanza di acqua corrente in casa e alla possibilità di fare la doccia giornaliera cui era abitato, si lavava ripetutamente nel vallone della Chianca, con grande scandalo dei tanti che ritenevano disdicevoli e superflue le sue manie di pulizia.

Oreste Mottola
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La storia di Daniela Pavone

Daniela nasce a Salerno il 31 maggio 1978. Fin dall’infanzia vive ad Altavilla Silentina. Preso il diploma magistrale presso il “Regina Margherita” di Salerno nel 1997 e l’anno integrativo nel 1998, Daniela partecipa e vince l’ultimo concorso nella scuola sia come insegnante della materna che delle elementari, seguendo il desiderio dei genitori, semplici agricoltori, che la volevano maestra.
Assecondando le loro aspirazioni, consegue anche il diploma in pianoforte nel 2003. Nel cuore ha un sogno: studiare psicologia. Nel 2001 convola a nozze con l’altavillese Alfredo Massascusa, fisioterapista ad Albanella e nel settembre 2002, senza dirlo ai suoi, partecipa e supera le selezioni a numero chiuso per la facoltà di psicologia presso la Federico II di Napoli. “Informai i miei della cosa la mattina stessa in cui dovetti recarmi in ateneo per iscrivermi”, ci ha raccontato, “avevano l’ambizione di una figlia che fosse maestra di pianoforte e docente, ma non mi permisero di trasferirmi per frequentare corsi universitari quando ero in casa con loro. Non ho mai rinunciato al mio sogno. Ho aspettato di sposarmi per decidere in libertà”. Daniela è l’incarnazione del proverbio “volere è potere”. Dinanzi agli ostacoli non si è mai arresa, puntando dritto all’obiettivo: “Per pagare le tasse ho studiato in modo da ottenere le borse di studio con cui mi sono auto finanziata, per non gravare su mio marito. Nel 2005 ho conseguito la laurea triennale in psicologia dei processi relazionali e nel 2008 la specializzazione in psicologia clinica, con lode e premio di laurea per essere rimasta nei 5 anni accademici. Il 2008 è stato anche l’anno in cui ho raggiunto iscrizione e abilitazione all’ordine degli psicologi della Campania e, contemporaneamente, ho preso il diploma quadriennale in musicoterapia presso l'Istituto di psicologia della musica di Eboli”. Altro capitolo della vita della nostra salernitana è, infatti, la musica: “Nel 2004 il coro polifonico “Armonia” di Altavilla, guidato dal M° Alfonso Caramante, mi invitò ad accompagnare le trenta voci maschili e femminili per i concerti di Natale. Sto completando un stage a seguito di un master in direzione e gestione del personale e attendo la convocazione da parte di qualche scuola del Piemonte come docente”. Ma questo lungo e difficile percorso di vita, si è appesantito ulteriormente a causa di una malattia che Daniela sta combattendo con la tenacia che la caratterizza: “Nel 2005 scoprii di avere un cancro alla tiroide, ma andai avanti e superai tutte le tappe importanti che ho già descritto. Non mi arrendo e sogno di avere dei figli e di specializzarmi in psicoterapia, di lavorare in un consultorio familiare o in una clinica psicosomatica”. Se i giovani sono mammoni e refrattari, cosa reclamare dinanzi a una risorsa così? Un mea culpa potrebbe già essere un inizio!
Maria Laura Pirone


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I primi quarant’anni altavillesi dell’avvocato Buonaventura Rispoli

Una proposta: conferiamogli la cittadinanza onoraria per il contributo dato al paese

La verità messa giù semplice è che alla fine degli anni Sessanta i Rispoli - che oggi nella loro azienda di Borgo Carillia producono conserve di pomodori, legumi, frutta sciroppata - quarant’anni fa vennero a rinvigorire l’economia di Altavilla Silentina quando essa era ancora tutta agricola. E che già al padre di Luigi e Buonaventura Rispoli quell’edificio a pianta crociata piacque già solo per questa particolarità architettonica.
LA FABBRICA CHE NON TROVAVA PACE
Dopo la morte di De Martino, avvenuta nel 1958, quella fabbrica non trovava pace e non ebbe successo il rilancio fatto dal Concooper, allora una sorta di “Partecipazioni Statali” fatta in casa. Nel nostro paese il settore primario era però a brandelli, con i meloni della varietà “Altavilla” consegnati ad una gloriosa memoria, il tabacchificio avviato ad una crisi irreversibile ed un’agricoltura annaspante perché i pomodori altavillesi piantati in ogni dove i Mellone a Ponte Barizzo, Cirio a Paestum, Rondino a Bellizzi e l’ebolitano De Martino se proprio li prendevano li pagavano assai poco. Nel paese si continuava ad emigrare in massa. Per fare l’operaio a Torino in Germania o a portare una divisa a Milano, differenza non c’era. C’era ancora in atto il baby boom ed i vuoti non si notavano. Il sindaco Tedesco ed il medico Sassi “politicamente” cercavano di rimediare altri posti di lavoro: non bastavano mai, erano sempre come gocce date agli assetati. I nuovi acquirenti, gli “abatesi” provenienti dalla profonda provincia napoletana, nella fabbrica rivestita a mattoni rossi si misero ad inscatolare pomodori e, anche per l’impronta “cattolico – democratica” che li ha sempre caratterizzati, cominciarono con il pagare meglio i contadini, e permisero ad un’intera comunità di tirare avanti, di ricominciare un suo circolo virtuoso, di “scansarsi” anche un po’ dal “mercato” della politica, facendo studiare i figli e maturando pensioni più decorose per gli anziani.
ACCOLTO CON DIFFIDENZA, MA POI E’ SUBITO SIMPATIA
All’inizio non furono però rose e fiori. “Sentivo una forte diffidenza nei nostri confronti. C’era chi ci vedeva come invasori. Ma bastò conoscerci come persone e tutto finì bene. Chi credette subito in noi fu un gruppo di agricoltori coraggiosi che io non finirò mai di ringraziare: Vincenzo Marra di Cerrocupo, Carmine Lanza di Quercioni, Natale Sgangarella di Albanella e qui a Carillia, Vito Belmonte”, racconta oggi quello che per Borgo Carillia è l’avvocato per antonomasia: Buonaventura Rispoli, classe 1935, studi di giurisprudenza a Napoli in una facoltà che traboccava di grandi maestri. “La prima volta che mi elessero sindaco del mio paese, avevo poco più di vent’anni, io non solo non mi votai ma mi dimisi quasi subito perché non ero ancora laureato e non mi sentivo adeguato al ruolo. Antonio Gava mi voleva mangiare vivo. E mi costrinse a fare più volte il consigliere provinciale a Napoli. Io che pur mi sentivo moroteo militavo nella sua area politica poiché il mio paese è a cinque minuti da Castellammare, zona di profonda influenza gavianea”. Storia di un’Italia del secolo scorso, infatti siamo nel 1960, e di un giovane che voleva fare l’avvocato e che la politica prima e l’imprenditoria dopo “traviano” e lo trascinano fuori dalle aule di udienza.
AVVOCATO ED IMPRENDITORE
Al di là dei ruoli formali, Buonaventura è ancora il punto di riferimento delle industrie Rispoli, il “cervello”, mentre Luigi è “l’operativo”, sede negli edifici che una volta furono di Carmine De Martino e che oggi amministra Carmela Palumbo, moglie di Buonaventura, con suo fratello Luigi ed i più giovani Natale e Giovanni, come nuove punte di diamante. “Oggi la fabbrica è diversa. E’ tutta tecnologie, il peso del lavoro si è ridotto all’osso”, confessa l’avvocato. Una volta non era così e sono forse migliaia gli altavillesi, e non solo, che soprattutto d’estate hanno lavorato alla Rispoli. Impossibile fare il conto dei soldi che, è davvero il caso di dirlo, “sono stati fatti girare”. “Ho un vanto: io non ho mai chiuso le porte a nessuno. Ho dato lavoro quando e come si è potuto. Ed è per questo che oggi, che quasi fuori dalla mischia, mi onoro di essere benvoluto dai più”. Il primo punto di svolta sono gli anni della virosi che colpisce il pomodoro, a metà degli anni Ottanta. Finisce l’approvvigionamento locale e la materia prima va fatta arrivare dalla Puglia, dalla Basilicata e dalla Calabria. “Il contributo delle campagne di Altavilla si era sempre più ridotto. Le aziende agricole – racconta Rispoli - avevano via via scelto l’allevamento delle bufale. La scarsa dimensione degli appezzamenti a disposizione però come era un problema per il pomodoro lo è ancora di più per il comparto bufalino”. Ci si mette poi la Cina che prima ci inonda con grosse quantità di semitrasformato da lavorare ulteriormente prima di rispedirlo nei capienti mercati africani e poi alza i prezzi della materia prima e con il concomitante aumento dell’energia necessaria per la lavorazione, il Btz, composto soprattutto da gasolio: “Sono 300-400 vecchie lire al Kg solo di energia termica. A queste condizioni è difficile tener dietro a questi costi”. In conclusione? “Non si possono fare più le lavorazioni invernali ai ritmi precedenti. Che ci assicuravano almeno 30 posti di lavoro. E così ogni anno dobbiamo ridurre di due o tre unità…”.
I PROBLEMI DI OGGI: IL PRG E LA TASSA RIFIUTI
Gli altri problemi? “Dal Piano Regolatore che non ha voluto riconoscere che qui c’è una zona industriale naturale che ha più di settant’anni. Ma i nostri progetti di valorizzazione ed investimento non ne risentiranno più di tanto”. Ma non finisce qui: “La Rispoli che non grava per un solo chilogrammo dei suoi rifiuti sullo smaltimento generale deve pagare 10mila euro all’anno per un servizio che non riceve. Mettiamola così: è un nostro contributo alla comunità”. Una comunità che potrebbe parzialmente sdebitarsi – è la modesta proposta di chi scrive - concedendo all’avvocato Buonaventura la cittadinanza onoraria del paese che, grazie al suo acume, è ancora uno dei centri di riferimento dell’agricoltura e dell’economia della Piana del Sele.
Oreste Mottola
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Agostino Cembalo, contribuì a far diventare scienza i conti degli agricoltori e a formare i manager verdi.

L'ULTIMO ALLIEVO DI MANLIO ROSSI DORIA
E' morto Agostino Cembalo, contribuì a far diventare scienza i conti degli agricoltori e a formare i manager verdi.

Si è spento a 72 anni. Allievo e poi collaboratore di Manlio Rossi Doria, è stato professore d'estimo presso la facoltà di Agraria di Portici.

di ORESTE MOTTOLA riproduzione riservata

Per trattenerlo a quel centro per le ricerche economico agrarie per il mezzogiorno, annesso alla gloriosa facoltà di agraria di Portici, il luogo dove è stata elaborata la politica agraria per il Sud, Manlio Rossi Doria, che era uomo fieramente di sinistra e tutto d'un pezzo perché fu azionista prima d'essere socialista, fece in modo da aumentare tutti gli stipendi dei ricercatori e degli assistenti. Agostino Cembalo, un giovane agronomo d'Altavilla Silentina, figlio di Luigi, volitivo piccolo agricoltore della piana di Cerrelli, non doveva andare via. Presso quel prestigioso centro, il cuore politico – economico di Agraria, erano passati nomi illustri. Da Emilio Sereni, che sarà ministro nei primi governi unitari del secondo dopoguerra e poi massimo teorico della politica agraria comunista in Italia a Rocco Scotellaro, non solo il poeta e scrittore che molti ancora conoscono, ma anche il primo applicatore in Italia delle modalità della sociologia applicata al mondo rurale, secondo le modalità messe a punto durante il New Deal roosveltiano. Presso Rossi Doria, che sarà anche senatore socialista eletto in Alta Irpinia, si concentra il milieu degli economisti agrari non solo del Mezzogiorno d'Italia ma, e sovviene il nome del torinese Giovanni Mottura, da tutta la penisola. Cembalo è con Guido Fabiani, Cupo, Matassino, De Benedictis e poi Enrico Pugliese e Mino Nardone, che prima di diventare deputato dei Ds e presidente della provincia di Benevento è ricercatore presso il centro di Rossi Doria. Agostino Cembalo sapeva far di conto, padroneggiava quella scienza che si chiama estimo, che sa dare un valore alle aziende agricole, calcolare la redditività delle colture agricole. Oggi l'avremmo definito un manager dell'agricoltura. E' così la Sangemini, che nella provincia di Caserta, aveva – ed ha ancora – una grande azienda agricola, l'aveva adocchiato per affidargliene la direzione. Nel frattempo con la porticese Cira Aversano, proveniente da una famiglia di floricoltori vesuviani, aveva avviato la creazione di una famiglia. La questione si risolse con Agostino che continuò a fare il direttore della Sangemini e restò, grazie all'aumento degli stipendi deliberato da Rossi Doria, all'interno della ricerca universitaria.
Con il susseguirsi degli anni il mondo accademico lo risucchiò sempre di più fino ad offrirgli quella prestigiosa cattedra d'estimo. Diventò così il primo docente universitario con natali ad Altavilla Silentina, e soprattutto, con origini dirette in quel mondo contadino e non agrario e bracciantile, che l'Italia democristiana degli anni Cinquanta e Sessanta mostrava di tenere in considerazione sì ma senza dargli una robusta iniezione di riforme di struttura tali da dargli un futuro.
Arriviamo così al 1975, quando Maurizio Valenzi diventa sindaco di Napoli e con Antonio Bassolino, segretario regionale comunista, si pongono il problema di cominciare a "mettere le mani" nella gestione di una Centrale del Latte napoletana dove la camorra faceva il bello ed il cattivo tempo. Fu naturale chiedere consigli a Portici, serviva un nome da mettere nel consiglio di amministrazione, che capisse di contabilità, di moralità ineccepibile, capace di non chinare la testa e fosse estraneo a certe "influenze ambientali". Fu Rossi Doria a fare il nome di Agostino Cembalo, anche per l'esperienza fatta sul campo alla Sangemini che allora non imbottigliava solo acqua di fonte ma possedeva una delle più grandi aziende zootecniche della Campania.
Nelle biografie delle personalità di successo, c'è prima o poi il momento nel quale il richiamo del "natio borgo" si fa presente. Per Agostino Cembalo questo arrivò nella prima estate dopo il terremoto del 1980. La parte maggiore la fecero due suoi cugini: prima di tutto Salvatore Cembalo, il dentista che nel 1975 aveva soffiato al potente Antonio Tedesco la poltrona di sindaco, ponendosi a capo di una lista civica "agricola", dove – come accadrà negli stessi anche a Roccadaspide - unirà l'ansia di riscatto delle contrade e quella dei primi figli dei contadini che si sono laureati ed hanno intrapreso prestigiose professioni. Agostino Cembalo c'è, ma è in seconda fila, svolge un ruolo da ideologo. Ma è Germano Di Marco, il cugino comunista, nel 1981 a fargli posto per fargli capeggiare la lista comunista. Quel tempo la temperatura politica di Altavilla poteva tranquillamente essere definita moderatamente clerico-fascista, il Pci solo dal 1975 eleggeva a stento un consigliere comunale. Non c'era neanche la speranza di fare "sponda" con Salvatore, il cugino democristiano, che era già chiaramente distante dal "luccichio" degli anni di governo del paese da parte di Rosario Gallo che si spingeranno fino al 1993. Eletto unico consigliere comunale comunista (era un socialista – liberale – radicale, non un marxista, e chi lo ha conosciuto lo può testimoniare) Agostino Cembalo onorò il mandato nel migliore modo possibile, soprattutto usando quella sua grande competenza di economista agrario. La consiliatura dura poco, nel 1993 si torna a votare, ma Agostino Cembalo non ne vuole più sapere e lascia l'impegno politico locale. E' l'Università a prendere il sopravvento, e negli anni che seguiranno non si concederà più distrazioni politiche. E' nel pool di tecnici che progetteranno quella che è stata, negli ultimi decenni, la maggiore innovazione di sistema apportata all'agricoltura di questa parte della Piana del Sele, vale a dire l'acqua incubata che ha sostituito quella delle canalette a pelo libero. Nella sua Altavilla il programma non è ancora stato completato, ma è stato lui a spiegare la straordinaria valenza economica, e di risparmio d'acqua oggi così preziosa.
Qualche anno fa, per tenere a bada il suo cuore ballerino, per stare più vicino alla sua Cira, "per fare un po' il nonno" come mi disse con quella sua bella voce ed aprendosi in uno dei suoi soliti sorrisi sornioni ed accattivanti, aveva scelto di collocarsi a riposo. Poteva starci fino a settant'anni sulla cattedra. Luigi, il figlio, doveva continuare il lavoro accademico. Ad Altavilla, dov'era tornato, se ne stava in disparte. Toccava a Franco, il genero, occuparsi della politica. Ancora lezioni di stile di quel figlio di contadini che divenne il primo professore universitario del nostro paese. All'amministrazione comunale, alla Bcc di Altavilla – organismi che hanno avuto il suo contributo – il compito di onorarne la memoria, magari, la buttiamo così, con una borsa di studio annuale da attribuire al più promettente dei nostri laureati che vorrà andare a specializzarsi all'estero.
Oreste Mottola

Uno scandalo altavillese di 80 anni fa. Un monumento per Carmine Perito

di ORESTE MOTTOLA (riproduzione riservata)

Furono i nostri "americani", quasi tutti emigranti di seconda generazione, che cominciavano a "stare bene" nelle varie Lttle Italy a volere un monumento. Ma non uno qualsiasi. "Che ricordi ai posteri il supremo sacrificio dei figli del nostro ameno paesello" (Lettera di Salvatore Perito a Angelo Molinara, del 21 luglio 1922, AcAS). Avrebbero anche voluto che ad erigerlo fosse lo scultore Carmine Perito, negli Usa diventato anche Peter, gloria degli altavillesi emigrati negli States. Non fu possibile perchè nel 1922 Perito morì all'improvviso. Il fratello Salvatore, così come l'intera colonia degli altavillesi a New York, avrebbero allora gradito che il paese natìo si fosse degnato di onorarlo con un busto da collocare nella nuova Piazza che si stava costruendo. Ma non fu possibile, ad Altavilla, come spesso accade, il suo talento non era riconosciuto. Eppure le sue statue erano in tutta l'America. Nemo propheta in patria Carmine Peter Perito che era nato 18 luglio del 1871. Emigrò giovanissimo in America. Studiò musica per otto anni ma la sua vera inclinazione era la scultura. Realizzò prestigiose opere in tutta l'America. A 30 anni ritornò ad Altavilla per fare tre mesi di servizio di leva e a Milano quattro anni di Accademia di Brera. E' a lui che i numerosi emigrati altavillesi in America si rivolsero affinchè tornasse in paese per costruire il monumento per onorare i caduti della Grande Guerra. Alla vigilia della partenza, prevista per il 16 dicembre 1920, un'affezione polmonare (la silicosi?) lo tenne per sei mesi a letto e poi lo spense. In Italia tornarono la moglie Gioconda ed il figlio Germano. Il fratello Salvatore, anche per onorarne la memoria, diede impulso alla raccolta dei fondi fra i compaesani. Carmine Perito è l'autore dello splendido portale della chiesa di Montevergine. L'opera rimase incompiuta perchè l'artista avrebbe dovuto riprenderla in occasione del ritorno per la realizzazione del monumento ai caduti. Il fratello, e gli altri emigranti, avrebbero voluto per lui un busto in piazza Castello. Quest'ultima ipotesi fu sempre fieramente avversata dall'allora sindaco, e poi podestà , Francesco Mottola. "La pretesa è un'americanata", scrive don Ciccio in una nota. Nella vicenda si inserisce poi Donato Galardi, il suo avversario per antonomasia.
L'idea iniziale dei nostri emigranti era quella di dotare la nuova Piazza di Altavilla un monumento imponente, di quelle che Peter Carmine Perito aveva realizzato a New Jork, Dallas ed in altre città americane. Per questo la raccolta dei fondi ebbe subito un avvio brillante. Ventiduemilalire furono raccolte subito. Così come i soldi che erano già serviti per dare dignità alla chiesa - capella di Montevergine. "Per i nostri morti", è la parola d'ordine. Ora però si preparavano a far tornare il loro più illustre rappresentante. Perito però si ammala. Il Comitato continua a lavorare. Però il diavolo ci mette due volte la coda. Alla fine del 1920, il 21 dicembre, arriva la lettera del presidente del "Comitato per il monumento ai Caduti in Guerra della Provincia di Salerno", Enrico Madia, che sollecita il comune "a deliberare una sovvenzione a favore del monumento che si eleverà in questa Città ad imperituro ricordo dei Gloriosi Caduti in Guerra appartenenti a questa provincia". Così il Comune di Altavilla, guidato da don Ciccio Mottola, può rientrare in un'iniziativa dalla quale era stato quasi estromesso. Qualcosa, a livello locale, comincia a muoversi l'anno dopo. Il 25 giugno Angelo Molinara comunica di aver costituito un comitato "per l'erigendo monumento ai Caduti" e fa istanza al Comune affinchè deliberi "un contributo" per "dare un degno riconoscimento del grande sacrificio dei numerosi Caduti per la patria". L'appello è raccolto dal consiglio comunale del 17 luglio 1921 dove 9 consiglieri (Francesco Mottola, Federico PIpino, Francesco Carrozza, Michele Caruso, Salvatore Nigro, Angelo Liccardi, Gaetano Cimino e Giuseppe Peduto) esprimono il loro "si" e altri 11 sono stranamente assenti (Ruggiero Mazzaccara, Germano Pipino, Francesco Carrozza, Giuseppe Cennamo, Antonino Marruso, Gennaro Ricci, Antonio Petrosino, Enrico Sassi, Carlo Molinara e Lazzaro Zito). E' giustificato Lazzaro Zito, poichè è deceduto da poco. Dieci dissenzienti per un monumento ai caduti sono troppi. Qualcosa è accaduto. E non è solo la prima prova della contrapposizione tra "Stella" e "Orologio". Facciamo un passo indietro. Il Consiglio Comunale delibera di impegnarsi per uno stanziamento di duemila lire, pagabili durante i prossimi due esercizi contabili. La situazione comincia ad imbrogliarsi già alla fine dell'estate, il 26 agosto del 1921, quando il Sottoprefetto di Campagna (che controlla gli atti del municipio) chiede a Francesco Mottola "tutti gli atti compresa la deliberazione di giunta d'urgenza". In poche parole, c'è stato un ricorso. Vuole vederci chiaro, il funzionario. Un'appunto manoscritto di don Ciccio Mottola dà conto del fatto: "sono sorte delle affermazioni su presunti danneggiamenti dal provvedimento di sistemazione della piazza per collocarvi degnamente il monumento ai numerosi caduti di questo comune!". E' sempre la penna di Mottola a vergare la domanda che Angelo Molinara inoltra al Ministero della Guerra per avere un cimelio "adeguato all'entità dell'opera per la quale saranno spese quarantamila lire". Duemila le metterà il municipio, e le altre 38 mila? Ventiduemila lire sono state raccolte negli Stati Uniti d'America e già inviate. Altre 16 mila lire dovrebbero arrivare dalla popolazione residente. No, le raccoglieranno ancora gli "esuli" come si definiscono nelle loro lettere, che si sono organizzati in un apposito Comitato. Ma subito c'è qualcosa che non va: "Comitato protesta energicamente spese incorse senza autorizzazione specifica. Temiamo ostacoli non lievi successo future questue", scriverà in un allarmato telegramma Salvatore Perito. Il fatto è questo, ed è tutto a carico di Angelo Molinara, il capo del comitato locale pro - monumento. Lo racconta un telegramma spedito dagli emigranti. "Si sta erigendo una murata di sostegno con i fondi a voi affidati". Il muro è prospiciente a casa Molinara e la notizia arriva subito in America. Gli emigranti sono in allarme e nient'affatto diplomatici: "A noi occorre sapere - scrive Salvatore Perito - la somma totale che trovasi presso di voi, oppure in deposito, presso le Casse di Risparmio: questo ve lo domandiamo, perchè tale rassicurante notizia proveniente direttamente da voi metterà a posto le cose". C'è il muro davanti alle proprietà Molinara, e passi. No, è tutto un falso. "La colpa è di Salvatore Iorio. E' lui che ha voluto scrivere al Prefetto, a Mussolini. Ce l'ha con Molinara", scrive a Mottola Salvatore Perito, il 25 giugno del 1925. Nella contesa poi entra Donato Galardi che così comincia la quarantennale battaglia contro don Ciccio. Ci va cauto Galardi, ma le "carte" ci restituiscono il suo telegramma: "Molinara sottoporrà controversia al Prefetto", che scatenerà le ire degli emigranti americani. Ma la discussione è anche sul tipo di monumento. E su chi dovrà eseguirlo. Qui la contrapposizione è con il sindaco Mottola. Gli emigranti vogliono che a lavorarci sia Carmine Perito. Dev'essere il monumento ai caduti ma anche l'esaltazione del genio di questo altavillese che si è fatto da solo. Ad Altavilla hanno idee diverse. Vogliono innanzitutto sistemare la piazza, più che a dirlo apertamente lo fanno capire agli esterrefatti "americani". Nello slargo che unisce le vie che vengono dall'Annunziata, dal Carmine, da S. Sofia e da Porta di Suso ci sono le piante di ulivo, qualche arbusto e tante pietre. Piazza Castello è ancora campagna. Poi, oltre al cimelio chiesto al Ministero della Guerra, ci sarà chi ebbe l'idea di piantarvi un albero (di leccio, di tiglio) per ogni caduto. Il monumento? va bene anche uno "di fonderia", fatto in serie, si comincia a dire. Perito? Può restarsene in America. Salvatore Perito, presidente del Comitato americano, e fratello di Carmine, se ne accorge e scrive a Mottola: "Avete voluto farci intendere che qualora non accettiamo la vostra soluzione siete liberi di fare erigere il Monumento a modo vostro usufruendo delle nostre 22 mila Lire? speriamo non sia questa la vostra intenzione altrimenti ci obbligherete a prendere le necessarie disposizioni per proteggere gli oblatori delle lire 22 mila, anzi ci permettiamo rispettosamente parlando al signor Sindaco di non toccare o far spendere una sola Lira della somma suddetta eccettuato per lo scopo prefisso".
Nel 1923 sulla questione non ho trovato carteggi. Vengono solo venduti all'asta otto alberi nello spazio attiguo l'ex chiesa dell'Annunziata (dove c'è l'attuale Municipio). Si aggiudica la gara Samuele Morrone e l'incasso, per 119 lire, va al presidente dellerigendo monumento ai Caduti. Carmine Perito è gravemente ammalato, gli emigrati non sanno cosa fare. Va bene continuare a raccogliere soldi, oppure fermarsi? Il dilemma è presto sciolto. Quel monumento va fatto, anche per onorare Carmine. "Carmine chi?", avrà detto colui che sarà detto "il Gattopardo altavillese", restio ad attribuire a colui considerava un onesto artigiano una patente di valore.
1924
Il 15 gennaio del 1924 da New York scrivono Salvatore Perito e Salvatore Monaco. La missiva è indirizzata a: "Illustrissimo signor Sindaco e Comitato Monumento dei Caduti in Guerra di Altavilla Silentina". Ecco il testo: "Stimatissimi signori. Il sottoscritto, Tesoriere del Comitato in New York e unitamente a molti altri componenti di questo Comitato, sono molto dispiacenti in riguardo alla poca attività mostrata dal comitato di Altavilla per l'erezione del tanto desiderato Monumento, per il quale i nostri compaesani hanno senza indugio contribuito finanziariamente per portare a fine detta opera.
Molte lettere e proposte sono state spedite al Presidente Cav. Dottor Angelo Molinara, senza aversi degnato di dare una risposta di sorta di sorte, sia per che cosa si attende di per fare detta opera, sia per sapere se vi aggrada che questo comitato facesse fare un disegno da Artisti qui residenti, come procurare prezzi della costruzione.
Il 9 ottobre fu spedito al sig. Molinara un piccolo schizzo per il costo del quale, da una ditta in Italia di già sappiamo il probabile costo; bensì come ho detto tale schizzo non fu un regolare disegno; ma, un accenno di ciò che si potrebbe ottenere per il denaro disponibile.
Io in qualità di Tesoriere ho spedito al signor Molinara lire Ventiduemila, ho saputo anche da altri nostri compaesani altre somme sono state spedite, e si spediranno ancora, se possiamo avere quella soddisfazione che a noi ci tocca da poveri emigrati.
Si desidera perciò sapere signor Sindaco di che si tratta per questo silenzio e non curanza, come pure, quanto ha contribuito il popolo di Altavilla; poichè essendo noi i contribuenti principali abbiamo diritto a tutte queste cose, e specialmente vogliamo sapere a mezzo di un disegno bozzetto od altro; che si vuol fare per il denaro disponibile. Sapendo tutto ciò, possiamo da qui fare anche noi passi per ottenere col minimo costo un buon lavoro, e che a ciò voi costà , dovreste associarvi invece di ostacolarci.
Attendiamo da lei Sig. Sindaco di farci consapevole di quanto accennato, sperando che non dobbiamo ricorrere altrove, per creare mali umori che sinceramente vogliamo evitare. Accettate i sinceri saluti. Salvatore Perito S. Monaco".
Alla lettera sono accluse le note a margine vergate da qualcuno. Forse è don Ciccio. Da queste apprendiamo che "non l'ha ricevuto" per lo schizzo inviato. Il "popolo di Altavilla" ha dato poco più 800 lire e 1800 lire sono state raccolte dai "soldati". Si precisa pure che le spese per la sistemazione del monumento sulla piazza ammonteranno a 16 mila lire comprensive del contributo comunale.
Intanto il 7 febbraio 1924 il "Comitato" da New York telefrafa: "Comitato forzato rivolgersi autorità desidera urgenti notizie monumento informato Molinara comitato New York ho dato contratto erigere schizzo mandatogli ad ottobre scorso. Firmato COMITATO".
Il 14 febbraio del 1924 dalla Sottoprefettura di Campagna arriva al Comune un "biglietto urgente di servizio" che comincia a fornirci un'altra chiave di lettura della vicenda. "Vien riferito che codesta Amministrazione Comunale in modo arbitrario avrebbe, in occasione spianamento Piazza Umberto Iø, alterato accesso casa abitazione del signor Beniamino Brunetti, al quale avrebbe causato perciò grave danno. La stessa Amministrazione avrebbe pure, contro volontà del Brunetti, disposto abbattimento di un muro della lunghezza di circa cinque metri.
Prego di fornire al proposito urgenti informazioni, disponendo che entro breve termine sia provveduto al ripristino del turbato possesso dei beni del Brunetti. Avverto che ho gli atti in evidenza".
Mottola risponde il 20 febbraio del 1924.
Un appunto autografo datato 7 marzo 1924, sempre di Francesco Mottola, forse prima nota di una lettera da spedire agli "americani" specifica come: - Molinara non ha preso alcun impegno per il monumento; - restano ancora a disposizione 17 mila lire; - che è conveniente bandire un pubblico concorso per avere condizioni più vantaggiose.
Ed è su questa "base" che il 20 febbraio del 1924 il sindaco scriverà una lettera a Perito e Monaco. Trascrivo dalla minuta autografa: "La lettera alla quale ho il piacere di rispondere trasuda un pò troppo risentimento verso il presidente del comitato pel monumento ai caduti, risentimento giustificato da supposizioni che individui ed asntipatie locali si siano fatte arrivare finanche a New York con troppe basse insinuazioni. Perciò faccio appello agli alti sensi di patriottismo dei nostri emigranti che con tanto slancio hanno voluto contribuire all'erezione di un monumento - ricordo per quanti immolarono le loro giovani esistenze. Non immaginavamo neppure lontanamente che questo sacrificio potesse costituire un buon pretesto per così meschine volgarità .
C’era una volta la “Fratellanza Silentina”

Furono Germano Di Matteo, Carmine Caruso, Domenico Cantalupo, Biagio Capone e Giovanni Belmonte, a fondare, il 13 maggio del 1888, a New Jork, la prima associazione, o meglio "Società di Mutuo Soccorso" degli altavillesi che avevano preso la via dell'emigrazione. Il notaio Louis Della Rosa scrisse lo statuto del sodalizio che prese anche il nome di "Fratellanza Silentina". Il gruppo aveva la finalità di fornire assistenza ed istruzione agli associati. Di questo gruppo, a sfondo massonico, farà parte lo scultore Perito (autore di importanti monumenti negli Usa ed in Canada) ed autore del portale della chiesa altavillese di Montevergine. Furono loro a raccogliere i fondi per erigere un degno monumento ai caduti della Grande Guerra. Quei soldi affidati ad Angelo Molinara diedero vita ad una polemica che continuò per oltre un ventennio. Per "metterci una pezza" l'allora podestà Mottola affidò allo scultore napoletano Tello Torelli l'incarico che ha portato all'attuale monumento. Gli emigrati altavillesi a New York ebbero molto a soffrire per questa vicenda. Per loro, in piazza Castello, doveva sorgere una grande scultura (per l'opera del grande Perito, che però mancò nei primi anni Venti) e non una copia di fonderia come poi avvenne. Francesco Mottola trattò assai male gli emigrati "americani", scegliendo di "coprire" le personalità altavillesi coinvolte nella vicenda. Dagli Usa però non stettero in silenzio e scrissero le ragioni a tutte le autorità dell'epoca. Venne poi la Seconda Guerra e tutto acquietò.

Carlo Sassi, medico ed artista originario di Altavilla Silentina

di Oreste Mottola riproduzione riservata

Medico prestigioso ed appassionato, Carlo Sassi è cardiochirurgo al Policliclinico dell’Università di Siena, ed anche un artista a tutto tondo ed affermato realizzatore di alcuni dei più importanti monumenti moderni della città di Siena. E’ nato ad Altavilla Silentina nel 1948, dove trascorre da sempre le sue estati, e Siena dove lavora e crea. E’ figlio del compianto Gaetano, medico ed uomo politico altavillese, mentre la mamma è la senese Maria Bruttini. Carlo Sassi comincia a disegnare sul retro di alcuni rotoli usati per gli elettrocardiogrammi nel periodo in cui, da giovane medico, frequentava un coro di specializzazione in Francia: “Scaricavo così il pathos, la tensione negli studi, la lontananza da casa”, racconta. “A scolpire ha cominciato con solo un martello ed una pietra”, dice la mamma. Oggi è direttore dell’Unità Operativa dell’Aorta Toracica del Policlinico dell’università di Siena, ed onora al massimo livello possibile quella vocazione profonda alla medicina che i Sassi stanno per far arrivare alla settima generazione. Arrivarono, all’inizio dell’Ottocento, da Vibo Valentia, allora Monteleone Calabro, per fare i medici a Persano. Nell’ampia zona di terra e boschi fra Altavilla, Serre ed Albanella l’allevamento del cavallo era una vera e propria industria che dava lavoro a migliaia di persone. Braccianti e maniscalchi, ma anche importanti figure professionali che poi hanno insediato le loro famiglie nei paesi vicini. Quello che ancora colpisce chi conosce bene Carlo Sassi è come egli riesca a far coesistere dentro di sè le sue passioni e la professione medica che lui svolge a livelli di altissimo impegno. Dentro al policlinico senese c’è l'unico centro in Italia ad offrire un servizio dedicato specificatamente alla chirurgia dell'aorta – dove Sassi lavora - dove vengono sviluppate importanti e innovative tecniche operatorie, grazie anche alla stretta e continua collaborazione con il Centro Ospedaliero Universitario di Caen, uno dei centri europei più all'avanguardia. Poi c’è il Sassi scultore dei monumenti. A Santa Caterina, in val d’Orcia, a Santa Chiara per l’Università di Siena, a San Michele Arcangelo per la Folgore, a Salvo d’Acquisto (statua alta tre metri) per i Carabinieri, e più recentemente l’Abbraccio per la Pediatria senese, divenuto poi il logo del Policlinico Santa Maria delle Scotte della sua città. Numerose sono le opere artistiche cui ha dato vita (bassorilievi in marmo, pietra serena e bronzo) ma pure molte delle chiese senesi contengono sue sculture 'sacre'. Negli ultimi anni, la sua attività artistica è in costante crescita. Amico di artisti come Charles Ortega, che nel 1987 partecipa anche al suo matrimonio, e di Oscar Staccioli, suocero di Leopoldo Di Lucia, noto medico di Albanella. Ha scritto di lui Gilberto Madioni, giornalista senese: "Cardiochirurgo, Sassi alterna l'attività quotidiana in camice bianco e sala operatoria all'altra della scultura con grafica e pittura preparatoria. Del resto, la capacità di eseguire interventi sui grossi e piccoli vasi e sul cuore non solo è dovuta alla pratica e allo studio, ma è al tempo stesso affidata alla grande fantasia ed al genio del chirurgo, così come avviene con l'arte. Il maestro senese non appena lascia il bisturi, lo si può trovare nel suo studio alle prese con il marmo, creta da plasmare, travertino, per dare vita a quelle forme (suoi elementi preferiti le figure) che egli affronta forte della conoscenza dell'anatomia umana. Una trasformazione totale quella di Sassi, quasi da Dottor Jekill a Mr. Hyde, due personalità diverse, accomunate da una grande dote, la pazienza e il grande amore per ciò che egli fa e per ciò che egli affronta. E se nella sala operatoria cerca, riuscendoci, di salvare la vita al suo prossimo, in arte Sassi rianima la creta, la carezza, la trasforma, dando vita a personaggi, siano uomini, donne o animali, facendo riferimento ad episodi legati alla classicità, sia essa profana che sacra, con una creatività e fantasia che non ha uguali".
Oreste Mottola