di Oreste Mottola (riproduzione riservata)
Ha vissuto per e con la società che lo circondava. Non si dica di lui che è stato solo un topo di biblioteche ed archivi. Giuseppe Galardi ha amato con uguale intensità la cultura, la natura ed anche la buona cucina e gli amici. E' stato uomo politico, assistente e consulente sociale. Ha fatto il farmacista ed il ragioniere. Ha vissuto intensamente la vita in tutte le sue sfaccettature. Da giovane lo spirito d'avventura gli risultava naturalmente congeniale. Era appena un adolescente quando, nel 1946, con gli allora giovanottini Amedeo Di Matteo, Rosario Gallo, Germano Di Lucia e Carmine Marra, organizzò un’esplorazione dell'allora spettrale, misteriosa e sconosciuta grotta di Castelcivita. Armati solo con un lume e gas e di tanta incoscienza questi giovanissimi, per ben due volte in un giorno, s'immersero in quegli antri allora per davvero bui e misteriosi. Il complesso speleologico non aveva guide, illuminazioni e gli stessi percorsi non erano stati per niente resi agevoli e percorribili com’è attualmente. E nessuno sapeva della "bravata" di questi ragazzi. E dall'avventura uscirono per miracolo, poiché ogni volta vennero fuori da un'uscita diversa. Solo un anno prima aveva trascinato nel boschetto delle Carpenine i suoi amici per festeggiare, a spumante, la sua licenza liceale. E, appena l'anno dopo, fece prendere ad Amedeo Di Matteo la sua prima, ed unica, ubriacatura.
Il giovane Giuseppe studiava all'Università di Roma, ma trascorreva l'estate ad Altavilla con i suoi amici. La vita dei giovani di buona famiglia dell'epoca aveva ritmi e modi molto semplici. Facevano gruppo intorno a Rocco Morrone, Mario e Luigi Guerra e lo stesso Giuseppe Galardi. Le discussioni colte erano inframmezzate con il rito della passeggiata in Piazza Castello, la scappatella a Calore per un bagno nel fiume, le escursioni in campagna a raccogliere e a mangiare la frutta di stagione e a... fumare furtivamente in quattro o cinque persone la stessa sigaretta. Ma non appena faceva buio dovevano già essere in casa. Intorno a loro avvenivano grandi trasformazioni sociali, svolte epocali. C'era l'emigrazione che si portava via la migliore gioventù e contemporaneamente le rimesse - in dollari e marchi - contribuivano a rimettere in piedi un paese uscito semi-distrutto dalla guerra. In paese non c'era l'acqua corrente e mancavano le fogne, nelle campagne anche strade ed elettricità. Nella Canonica si tenevano rappresentazioni teatrali e nel Granile intorno al Castello c'era il Cinema.
Qualche anno dopo con altri amici mette su una sorta di massoneria altavillese, molto sui generis. Si autodenominarono, il "patriziato", e subito Peppino - che ne era il capo indiscusso - degradò il fraterno amico Vincenzo Grimaldi a 'servo della gleba' perchè questi era dedito ...all'acqua di fontana, invece di essere un cultore del buon vino paesano.
Nella Piana sottostante le lotte contadine e bracciantili e la conclusione delle quasi secolari operazioni di Bonifica facevano scomparire l'incubo della malaria e dalla Collina in migliaia scesero verso Carillia e Cerrelli. La "storia d’Altavilla"si è strettamente intrecciata al nome ed alla figura di Giuseppe Galardi. A lui si sono rivolti tutti: dalla Soprintendenza BAAS agli studenti universitari alle prese con la tesi di laurea. "E' stata la memoria storica del nostro paese" dice Francesco Mottola che insegna Storia Medioevale all'Università di Chieti. Galardi vive da sempre all'ombra del luogo più significativo della storia del paese: quella chiesa di S. Egidio desolata mente chiusa dopo il terremoto del 1980 e dentro ricoperta da una spessa coltre di polvere e di calcinacci con il pavimento sconnesso e pieno di crepe.
Lo storico Galardi è stato per i compaesani "il dottore" o semplicemente "Peppino" a secondo del grado di confidenza. Non amava pubblicare i suoi lavori. Alla stampa ha dato finora uno studio sull'arrivo ad Altavilla del Corpo Santo di S. Germano (la reliquia è conservata nella chiesa di S. Biagio) ed un "Profilo storico monumentale e paesaggistico di Altavilla Silentina; (edito dalla salernitana Palladio di Franco Di Matteo) e scritto a quattro mani con Rosario Messone. Negli anni giovanili ha scritto sulla rivista culturale "Verso il Duemila" di Salerno.
Eppure aveva una casa ricca di manoscritti sul dialetto e sulle tradizioni popolari. Nessuno riuscì mai a vincere finora la sua naturale ritrosia. La "militanza" storica -di Giuseppe Galardi comincia nei primi anni Cinquanta. Ha l'esempio dello zio Donato, direttore didattico e corrispondente de "Il Mattino" e del "Roma", conversatore forbito ed arguto e dalla cultura enciclopedica. A casa Galardi c'è un cenacolo intellettuale e politico di grande fascino e prestigio a cui fanno capo i professionisti del paese che avversano - il podestà e poi sindaco - Francesco Mottola.
Saranno poi gli animatori delle epiche lotte politiche tra la lista della "Stella" e dell'"Orologio". Comincia ad interessarsi quasi professionalmente alla storia di Altavilla Silentina per le scoperte fatte nel riordinare le carte dello scomparso zio Donato. Fu profondamente colpito dal libro dei baroni Alessandro e Antonio Ferrara, "Cenni Storici su Altavilla Silentina" pubblicato nel lontano 1898. Ancora oggi è il testo base della storia silentina. Ed è questa pubblicazione ad instradarlo verso la storia che diventa per lui una passione divorante, una ragione di vita. Diventa di casa presso gli archivi di Napoli e di Salerno, consulta e ricostruisce gli archivi parrocchiali e del Comune di Altavilla Silentina. Entra in contatto con storici di professione come Timpano, Mazzoleni e Cilento. Scopre di aver avuto un antenato vissuto nell'Italia dell'Ottocento di fede liberale ed esule in Piemonte, che ha partecipato - nel 1857 - alla sfortunata spedizione di Carlo Pisacane (e si salverà a stento dall'eccidio di Sanza) e che finirà in galera per supposto fiancheggia mento del brigantaggio. Il suo nome è Rosario Galardi e su di lui Giuseppe Galardi stava raccogliendo la documentazione necessaria per scriverci un libro. Nel 1964 è Giuseppe Galardi a fornire allo scrittore varesino Piero Chiara le notizie di base per il suo romanzo "Il Balordo", ambientato ad Altavilla. La vicenda è stata ricostruita da Lidia Cennamo nel libro "La Collina degli Ulivi", in questa sede segnaleremo solo il "furto" di una decina di pagine del vecchio libro dei Ferrara che Chiara trascrive integralmente nel suo romanzo. E' negli anni Sessanta e Settanta che Giuseppe Galardi s'impegna nell'opera difficile e certosina di ricostruzione dell'Archivio Storico del Comune, recuperando i registri che erano andati dispersi nelle case dei vecchi impiegati e riordinando una marea di vecchie carte. Rimette così insieme rari ed importanti documenti del Cinquecento e del Seicento, bollettini feudali, raccolte di leggi e deliberati amministrativi. Ho già ricordato che Giuseppe Galardi è stato anche esponente politico di primo piano nel nostro paese. Per tanti anni sedette nel consiglio comunale quale rappresentante del Msi. L' amore per Altavilla, la concordia, l'ironia e la lungimiranza furono sempre i suoi riferimenti nello svolgere il suo mandato politico. Mi piace, in questa sede, ricordare che una delle sue ultime battaglie fu contro l'estensione ai territori collinari della "pertinenza" del Consorzio di Bonifica di Paestum. E' quella delibera comunale che oggi ci costringe tutti a pagare un inutile tributo per una bonifica che non c'è stata e non ci sarà mai.
Giuseppe Galardi ebbe anche la capacità di attrarre la curiosità del Touring Club che, nel 1994, mandò la giornalista Dora Celeste Amato a raccontarlo nel libro “I più interessanti ed insoliti itinerari italiani”: “La sua casa profuma di antico: cibi tradizionali “tirati” dalle sei di mattina sul vecchio “fornello” accanto a pagine e pagine di quadernetti riempiti dalla minuta grafia di questo Julien Sorel cilentano, solo per amore per la storia – scrive - e niente scandali. Ce ne sono già abbastanza in queste carte, sembra dirci Galardi!”. Poi lo storico sociale spiega alla giornalista una delle curiosità altavillesi, dove l’emancipazione femminile è ormai un fatto secolare: “Sin dall’inizio dell’Ottocento molti erano i matrimoni che avvenivano fra le ragazze altavillesi, spesso un po’ attempatelle e spesso vedove, e i ragazzi lucani. I “bracciali” che venivano dalla poverissima Basilicata (lavoratori delle braccia) arrivavano qui e in cambio trovavano la donna e la casa, anche se questa era costituita da una sola stanza. Erano quindi le donne a dettare legge, proprietarie di case e campi; le cose cambiarono solo a fine Ottocento, quando molti uomini chiesero il passaporto per “le Americhe” e, tornando, poterono sposare le figlie dei maggiorenti”.
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