Chi sarà mai "la gente"?
Una sera dell'estate scorsa, mi trovai, quasi per caso, seduta ad un tavolino del bar centrale di Piazza Castello con alcuni vecchi amici, qualche faccia nuova e altri conosciuti nel pomeriggio. Tra i mille discorsi affrontati quello che fece scaldare maggiormente gli animi fu, come è immaginabile, l'abbandonare o meno Altavilla per cercare la propria realizzazione lavorativa e umana altrove. Premetto che, per quanto possa amare Torino mia città natale, vivo la lontananza dal paese come se fosse un esilio, dunque mi colpì particolarmente un ragazzo, non più giovanissimo che, con aria di sufficienza, si inserì nella discussione gettando un fiammifero acceso sulla benzina che fuoriusciva dalle nostre bocche: "Io torno in estate per vedere mia madre, il giorno in cui lei ci lascerà non metterò più piede qui". Il ritorno quindi vissuto come richiamo di sangue. Nessuna nostalgia per la terra, l'odore, le abitudini, le tradizioni. Provai a farlo ragionare. Io che, nella fredda città piemontese, non passo giorno senza rivolgere a sud un malinconico pensiero. Io che mi addormento ogni sera chiudendo gli occhi alla ricerca di quella pace, che forse voi chiamate tedio, ma per me è impossibile da trovare altrove. Mi resi conto da subito che mi accingevo ad un confronto già perso in partenza. Percorrevamo al contrario due linee parallele che non si sarebbero mai incontrate. Lui fuggito dalla quotidianità noiosa e alienante del paese natio, io attratta da una forza proveniente dalle viscere più profonde di quella terra. Entrambi provammo a sostenere le nostre tesi. Aveva le idee ben chiare. Non era solo la mancanza di lavoro la causa del suo allontanamento, ma soprattutto la "gente". La gente, gli altavillesi. Persone strane. Iniziò con l'espormi un esempio dalle fondamenta poco solide: "Odio stare in coda alla posta ed essere superato da chi è appena entrato perché amico del cassiere o del direttore o di chicchessia". E' vero succede e non solo ad Altavilla, ma proprio qualche giorno prima ero stata in posta e il cassiere si era prostrato per aiutarmi a risolvere un problema senza neanche conoscere il mio nome. Mezz'ora dedicata a me e nessun lamento di chi era alle mie spalle. Anche questo succede, a Torino no, non c'è tempo, si va di fretta, ritieniti fortunato se ti vengono concessi un paio di minuti. Mi raccontò di situazioni politiche particolari, di clientelismo, di nepotismo e così via. Lo bloccai. Non mi interessava. Non è solo la classe politica che fa il paese, come la terra è di chi la lavora, il paese è di chi lo vive. Su questo punto ci trovammo d'accordo, ma proprio questo punto lo infervorò ulteriormente. Ad Altavilla manca la voglia di evolversi, sbraitava. Ad Altavilla manca la forza di vivere la propria realtà, lo corressi, e questo vuol dire renderla il più gradevole possibile. Ho visto amici impegnare anima e corpo per organizzare un qualsiasi evento e avere come risposta sguardi vuoti e ghigni neanche troppo soffocati dalle stesse persone che, passeggiando su e giù per la piazza con le braccia conserte, lamentano la mancanza di stimoli. Ho visto giovani costretti a chiudere locali soffocati dall'invidia. Ho visto, da un'estate all'altra, sparire il "campetto", la "foresta" e così via. Per giocare una partita a tennis bisogna emigrare ad Albanella. Per andare in un locale alternativo bisogna arrivare al mare. Per ballare non ne parliamo. Ho scoperto dell'esistenza degli scavi di San Lorenzo preparando un esame di archeologia medievale a mille chilometri di distanza. Perché ad Altavilla, a differenza di altri paesi, anche limitrofi, nulla di positivo riesce a durare? Chiesi. "Per via della gente" fu la risposta unanime che s'innalzò da quella piccola tavola rotonda improvvisata. La gente. Ma chi sarà mai questa "gente"? La "gente", elemento astratto e inafferrabile, si è inserita nella mia vita da quando ragazzina in vacanza ad Altavilla sentivo ripetere "Non stare davanti al bar se no la gente…Non stare in piazza fino a tardi se no la gente….Non uscire con quello perché porta l'orecchino se no la gente…." Una litania che a me suonava come un bombardamento di timori esasperati ed esasperanti. Immaginavo gruppi di persone ferme agli angoli delle strade in attesa del mio passaggio per poi bisbigliarsi cattiverie all'orecchio e lanciarmi anatemi. Solo una persona, nella mia famiglia, riusciva a sdrammatizzare. Mio nonno materno, forse forte della sua esperienza americana ironizzava ribadendo che "le critiche giunte alla fine del paese non possono che tornare indietro", dunque tragitto breve e pochi giorni di sopravvivenza. Così, negli anni, pezzo per pezzo sgretolai l'immagine fantastica e fantasiosa che avevo creato della gente. Alla fine gente, la gente siamo noi, la gente siete voi. La gente siamo tutti e tutti dobbiamo guardare nella stessa direzione. E'controproducente ridere di chi con impegno lavora per migliorare quello di cui tutti godiamo, che si tratti dell'apertura di una nuova attività o dell'organizzazione di una serata di festa poco importa, ogni briciola è parte di un pezzo di pane che poi sazierà un po' tutti. E' controproducente crescere i figli con il mito del Nord ricco e efficiente, al contrario facciamoli innamorare delle loro origini al punto che li sentiranno sempre imprescindibili dal proprio essere, anche perché, una volta partiti, non solo non mangeranno fusilli al pranzo della domenica o struffoli la sera di Natale, ma vivranno lontani dal calore che unicamente la propria terra e la propria gente possono donare e inevitabilmente, strappati dalle loro radici e da tutto quello che è la loro storia saranno persone a metà, forse con un lavoro più sicuro, forse, ma pur sempre persone a metà. "E' facile per voi, con uno stipendio fisso a fine mese, suggerire agli altri come dovrebbero reagire di fronte alle difficoltà imposte dalla propria situazione", mi hanno attaccata, quasi all'unisono, i partecipanti, via via sempre più numerosi, di quella intensa conversazione estiva. Questo è indubbio, ma credetemi, quassù è raro leggere negli occhi di qualcuno quel senso di appartenenza che traspare dai vostri e l'essere parte di una comunità, quest'ultima intesa come gruppo di persone che condividono qualcosa di importante, è il primo passo verso la realizzazione di qualsiasi progetto, è impresa titanica scalare una montagna in solitudine. Non so se quella sera di mezza estate sono riuscita a convincere il mio nuovo amico, certamente lui mi ha lasciato una riflessione che giro a voi con la speranza che troviate le risposte che vagano, da mesi ormai, negli strati più bui e profondi della mia mente. Apparirà retorica, ma come può un paese sito alle porte del Parco Nazionale del Cilento, con alle spalle dei monti superbi e di fronte una delle coste più belle d'Italia, con un centro storico invidiabile e una vista sulla piana del Sele da togliere il fiato, con un potenziale immenso e assopito, in attesa da anni di essere sfruttato, lasciare che i propri figli fuggano e che lo facciano con il desiderio di non tornare più, quasi, e questo mi viene da pensare, a scappare da un amore troppo grande, un amore che li ha delusi, li ha feriti , li ha lasciati andare dandogli probabilmente anche un leggera spintarella sulla schiena per facilitarne il distacco…
Tiziana Rubano
Nessun commento:
Posta un commento