Per stringere le vinacce e estrarne altro vino, certo, meno pregiato come si diceva, la cantina di mio nonno Salvatore, non era provvista né di " torchio a leva con gruppo a pressione idraulica" né dell'altro " a elica per vinacce", come nelle moderne cantine. Quello dei nostri contadini l'avevano inventato essi stessi con mezzi poveri e ingegnosi.
Sotto a un annoso olmo avanti casa nonno aveva montato tutta la macchina per la " stringitura" delle vinacce.
Sopra una piastra fissa, costituita da una grossa pietra arenaria spiana, munita di canale di raccolta del liquido che cadeva in un tino sottostante, venivano montate le due parti di un tamburo con doghe interstiziale, fermate esternamente da morse metalliche, che ne facevano un cilindro.
Il tamburo si riempiva di vinaccia grondante vino fino all'orlo, su cui si montava una piastra mobile , che per via della pressione che vi si esercitava sopra s'abbassava lentamente facendo sprizzare il vino dagli interstizi delle doghe. Il canale di raccolta si riempiva e a fiotti si riversava nel tino di raccolta sottostante.
Si stringeva fino a quando la vinaccia non restava asciutta , buona solo per alimento alle galline , che si cibavano di bucce e di vinaccioli ,o buona per ricavarne grappa attraverso un delicato processo di distillazione con alambicco e accorgimenti vari.
La pressione sulla vinaccia era esercitata con un curioso e ingegnoso marchingegno di invenzione tutta contadina, come si diceva.Nel robusto e annoso olmo, che sorgeva sul confine della sua proprietà, nonno aveva praticato un grande foro, nel quale aveva inserito una trave , di non so che legno, della lunghezza di quasi quattro metri; ne risultava una sorta di stadera dall'estremità della quale pendeva un gancio per appendervi i pesi: un grosso ceppo o un masso sui quali si aggiungeva della zavorra per una maggiore pressione sul tamburo, una sorta di "romano" come nei " bilancioni " d'una volta.
Intanto il vino da " stringituro" si conservava in damigiane grandi e piccole, in pretti e impagliati, rivestiti di vimini o di paglia, fino a che non raggiungeva una buona maturazione; si consumava per primo o se ne faceva aceto, buono per sottaceti e insalate della cucina contadina.
L'ambiente della casa campagnola sapeva tutto di vinacce e di vino che ribolliva nelle botti o negli antichi " fiasconi" capaci di contenere piú di un quintale. Adornano oggi quelle pregiate terracotta, atri e giardini di preziose ville di campagna , ma nessuno sa quanta storia esse raccontano.
Alla fine dell'operazione si staccavano la zavorra e i pesi appesi alla stadera, la quale poi veniva sollevata con una fune assicurata all'estremità di un' asta, che aveva il suo fulcro nell'inforcatura di un palo, come in una leva di 1° grado, grosso modo.
Il vino si tramutava piú d'una volta “guardando" la luna, e a quella di marzo s'imbottigliava il nero e il bianco di buon contenuto alcolico per brindisi nelle feste o quando si voleva far bella figura con l'ospite invitato a pranzo.
Altra cosa era, poi, il " vin cotto", buono per il sanguinaccio e per dolcificare altre confetture. Si otteneva facendo bollire il mosto dolcissimo fino a che tutta l'acqua e buona parte dell'alcool erano evaporai, attesissimi. e nella pentola restava tutta la parte zuccherina , poco meno che cremosa, che stuzzicava la golosità di noi bambini ai tempi in cui solo i dolci della sposa , cui mamma e papà erano stati invitatisi mangiavano.
Mamma si accorgeva che il livello nel fiasco che conteneva il vin cotto di tanto in tanto s'abbassava, ma non era un mistero con dieci figli in casa !
E' inutile dire che il vino nell'economia d'una famiglia contadina era essenziale: asciugava il sudore nella fatica, dava tono al pranzo domenicale e allegria nelle feste e, nelle cantine del paese - e sì che ce n'erano tante in ogni angolo - si annegavano in solenni sbronze i pensieri e le angosce della vita...
Ma tant'è: cosí stavano le cose una volta, anni trenta, e cosí io ve le ho raccontate, sicuro che i "figli di nutella e quelli della coca-cola" faranno fatica a condividere...
Sotto a un annoso olmo avanti casa nonno aveva montato tutta la macchina per la " stringitura" delle vinacce.
Sopra una piastra fissa, costituita da una grossa pietra arenaria spiana, munita di canale di raccolta del liquido che cadeva in un tino sottostante, venivano montate le due parti di un tamburo con doghe interstiziale, fermate esternamente da morse metalliche, che ne facevano un cilindro.
Il tamburo si riempiva di vinaccia grondante vino fino all'orlo, su cui si montava una piastra mobile , che per via della pressione che vi si esercitava sopra s'abbassava lentamente facendo sprizzare il vino dagli interstizi delle doghe. Il canale di raccolta si riempiva e a fiotti si riversava nel tino di raccolta sottostante.
Si stringeva fino a quando la vinaccia non restava asciutta , buona solo per alimento alle galline , che si cibavano di bucce e di vinaccioli ,o buona per ricavarne grappa attraverso un delicato processo di distillazione con alambicco e accorgimenti vari.
La pressione sulla vinaccia era esercitata con un curioso e ingegnoso marchingegno di invenzione tutta contadina, come si diceva.Nel robusto e annoso olmo, che sorgeva sul confine della sua proprietà, nonno aveva praticato un grande foro, nel quale aveva inserito una trave , di non so che legno, della lunghezza di quasi quattro metri; ne risultava una sorta di stadera dall'estremità della quale pendeva un gancio per appendervi i pesi: un grosso ceppo o un masso sui quali si aggiungeva della zavorra per una maggiore pressione sul tamburo, una sorta di "romano" come nei " bilancioni " d'una volta.
Intanto il vino da " stringituro" si conservava in damigiane grandi e piccole, in pretti e impagliati, rivestiti di vimini o di paglia, fino a che non raggiungeva una buona maturazione; si consumava per primo o se ne faceva aceto, buono per sottaceti e insalate della cucina contadina.
L'ambiente della casa campagnola sapeva tutto di vinacce e di vino che ribolliva nelle botti o negli antichi " fiasconi" capaci di contenere piú di un quintale. Adornano oggi quelle pregiate terracotta, atri e giardini di preziose ville di campagna , ma nessuno sa quanta storia esse raccontano.
Alla fine dell'operazione si staccavano la zavorra e i pesi appesi alla stadera, la quale poi veniva sollevata con una fune assicurata all'estremità di un' asta, che aveva il suo fulcro nell'inforcatura di un palo, come in una leva di 1° grado, grosso modo.
Il vino si tramutava piú d'una volta “guardando" la luna, e a quella di marzo s'imbottigliava il nero e il bianco di buon contenuto alcolico per brindisi nelle feste o quando si voleva far bella figura con l'ospite invitato a pranzo.
Altra cosa era, poi, il " vin cotto", buono per il sanguinaccio e per dolcificare altre confetture. Si otteneva facendo bollire il mosto dolcissimo fino a che tutta l'acqua e buona parte dell'alcool erano evaporai, attesissimi. e nella pentola restava tutta la parte zuccherina , poco meno che cremosa, che stuzzicava la golosità di noi bambini ai tempi in cui solo i dolci della sposa , cui mamma e papà erano stati invitatisi mangiavano.
Mamma si accorgeva che il livello nel fiasco che conteneva il vin cotto di tanto in tanto s'abbassava, ma non era un mistero con dieci figli in casa !
E' inutile dire che il vino nell'economia d'una famiglia contadina era essenziale: asciugava il sudore nella fatica, dava tono al pranzo domenicale e allegria nelle feste e, nelle cantine del paese - e sì che ce n'erano tante in ogni angolo - si annegavano in solenni sbronze i pensieri e le angosce della vita...
Ma tant'è: cosí stavano le cose una volta, anni trenta, e cosí io ve le ho raccontate, sicuro che i "figli di nutella e quelli della coca-cola" faranno fatica a condividere...
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