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martedì 26 agosto 2008

Gerardo Marra. L’ombra inafferrabile di un emigrato di successo

Lasciare Altavilla per dispiegare le proprie potenzialità

di Rosario Messone

«In Germania si dice che a colazione si deve mangiare come un Re, a pranzo come un principe ed a cena come un pezzente», disse un commensale che onorava la tavola in occasione di un ricevimento offerto, alcune sere fa, da un gruppo di turisti brasiliani.Incuriosito dall’accento e soprattutto da qualche parola di antico altavillese, ne volli sapere di più; la mattina successiva eravamo in piazza per una conversazione che si svolse tra ombrate reticenze, ammissioni e confessioni. Di quel signore ne avevo appena sentito parlare: sapevo solo che per molti anni non aveva dato sue notizie.«Mi piangeva il cuore stare lontano per tanto tempo, ma, per rispetto alla mia famiglia, volevo prima realizzarmi. Sono duro come una pietra e non volevo tornare sconfitto in paese», mi confessò Gerardo Marra, orgoglioso di non aver fatto la fine di molti altri emigranti che ritornano dall’estero vinti nell’animo e più poveri di prima. «Quando ero in procinto di partire per la Germania comprai due libri di grammatica di lingua tedesca, che, tra un lavoro e l’altro di falegnameria al seguito di mio padre, imparai in poco tempo». Dopo un attimo di esitazione riprese torcendo un po’ la bocca ed arricciando il naso: «Rimasi un po’ deluso quando arrivai a Krefeld: chiesi un semel (panino) ma nessuno mi capì dove ero giunto poiché parlavano il dialetto. Solamente un signore della Sassonia che per caso si trovava lì comprese le mie parole e mi aiutò».Come accadde in Italia che dopo l’unificazione fu assunta come lingua ufficiale il toscano, fermo restando la pluralità dei dialetti esistenti che ponevamo dei muri enormi nella comunicazione tra la popolazione dei vari paesi, così fu appurato dal giovane emigrante in Germania, dove la lingua ufficiale era quella di Hannover che non sempre veniva compresa.Continuò poi la conversazione affermando che un errore si può fare una sola volta; farlo due volte è un’incoscienza; perciò, ripeteva più volte le frasi corrette diventando in poco tempo padrone della lingua carpendone i segreti.Fece cadere il discorso sull’integrazione ed espresse concetti che andrebbero certamente approfonditi e che potrebbero essere di guida per tanti immigrati che ogni giorno sbarcano in Italia: disse che il segreto per fare successo all’estero è legato soprattutto all’integrazione; questa è solo una difficoltà momentanea ma essenziale, nei primi momenti è quasi una questione di vita. Con orgoglio affermò: «Mi sono dovuto integrare nel più breve tempo possibile; condizione necessaria per vivere negli anni ’60 in Germania. Con un grande sforzo mentale ho acquisito comportamenti ed espressioni, entrando nella mentalità di quel luogo, tanto che molti mi consideravano uno di loro. La fortuna e l’occasione, poi, sono state benevoli con me, regalandomi una moglie tedesca molto affettuosa e senza grilli per la testa». Dopo aver fatto una breve pausa, distratto da un motorino scoppiettante che arrancava per la salita del paese, riprese: «Finiti gli studi entrai a far parte di un gruppo d’ingegneri. Per tre anni accettavo ogni consiglio o direttiva; alla fine, grazie alla mia disponibilità e spirito di sacrificio, mi scelsero come loro capo. Avevamo il compito di correggere errori di produzione e di stabilire metodi di lavorazione per grandi industrie private e statali al fine di migliorarne la produttività. Per fortuna mia moglie è stata sempre riservata sul lavoro che svolgevo, perciò non ho avuto mai guai di spionaggio industriale».Con gli occhi rivolti al cielo come per ringraziare chi ci guida, esclamò: «Mi sono allontanato dal paese natio per dare un senso alla vita e vivere intensamente ogni giorno che mi viene regalato. Ad Altavilla, invece, sembra che la vita è corta».Con fare dimesso aggiunse che oggi gli rimangono solo dei ricordi e la compagnia di qualche suo amico professionista che condivide la stessa sorte di pensionato. Per il suo futuro predice una vita di ricordi che mal si coniuga col passato. Spiega che, in Germania, lo Stato o altri Enti attrezzano dei grossi palazzi con tanti appartamentini, che vengono fittati agli anziani richiedenti che hanno venduto la propria casa. Controllati dalle strutture socio-sanitarie, man mano che le condizioni fisiche peggiorano, i degenti passano ai piani inferiori; ognuno, così, può sentirsi a casa propria e non essere chiusi negli ospizi come ancora oggi capita da noi. Stimolato a raccontare dei particolari sul primo impatto che ebbe da emigrante, riferì che ha iniziato a lavorare in Germania, all’età di 24-25 anni, con uno stipendio dignitoso; la mattina lavorava alle poste come avventizio con la mansione di dividere pacchetti e la sera andava a scuola; dormiva pochissimo ed arrivò così, alla fine degli studi. La famiglia della moglie non gli fu di aiuto, perché il padre fu colpito da una pallottola che gli attraversò il polmone nella campagna di Russia; per cinque anni fu obbligato a scavare nelle miniere morendo di stenti e di dolore.Per far completare gli studi in pediatria alla moglie la mantenne a casa per due anni; vivevano con un solo stipendio e nonostante ciò, i loro figli esclamano spesso: «Sono stati gli anni più duri ma più belli della nostra esistenza. Stavamo tutti insieme dove la concordia e l’affetto regnavano sovrani». Dopo una breve pausa riprese il discorso, senza nascondere una certa emozione: «Come gli uccelli spiccano il volo alla prima occasione, così, i miei figli si sono allontanati da Krefeld. Claudia che si è laureata in chimica, all’età di 24 anni , ha studiato anche filosofia giapponese all’università di Tokio diventando, poi, insegnante associata alle università Osaka e Nagasaki. Mio figlio, invece, si è laureato in scienze economiche e s’interessa della formazione informatica, facendo corsi al personale di Enti Pubblici».Riferì che è stato molte volte in Giappone e che è stato attratto dalla cortesia e dal comportamento dei suoi abitanti. Un giorno, in una kaufen (via del centro con molti negozi), si fermò davanti a loro una famiglia, composta da due adulti e due giovani; essi fecero prima un inchino e poi chiesero di parlare. Il capo famiglia disse: «Ringrazio Lei», rivolgendosi a mia figlia, «che ha insegnato ai miei figli e così a Lei», rivolgendosi suo padre, «che l’ha generata». In quel momento capi che la scelta fatta dalla figlia era giusta e si spiegò il perché non voleva più ritornare. Quella frase la conserverà per sempre nel cuore.Per un’insegnante di pedagogia questo è uno dei più grandi riconoscimenti al di là dei titoli accademici che si danno più per amicizie e favori che per meriti.Stimolato a riferire sui rapporti col paese natio confessò: «Sono partito da Altavilla con una mentalità ristretta e lo spirito di sacrificio che la vita imponeva. Questa mentalità è ancora impressa nel mio animo. A volte non riesco a capire o ad apprezzare la trasformazione e l’evoluzione di Altavilla. Quando ritorno, porto quel bagaglio mentale formato da segni, modo di vivere ed esperienza, ma rimango puntualmente deluso: non trovo più quello che ho lasciato, affetti, amicizie e spirito di sopportazione. Riaffiora il contrasto al disopra dei valori secolari. Cerco d’ingannare le mie aspettative ma non ci riesco. Quando mi organizzo per ritornare mi sento irrequieto simile ad un allievo deve affrontare un esame; ho paura di confrontarmi con i fattori che facevano parte della mia vita e di quella dei miei antenati; mi sembra di dover afferrare la mia ombra, tanto vicina eppure irraggiungibile; per questo dico sempre che ogni realtà ha la sua ombra. In Germania ogni contrasto lo si chiarisce facilmente: basta parlarne e tutto finisce. Qui, invece, ci sono sempre degli strascichi che ci seguono come ombre».Si congedò con una stretta di mano e con la consapevolezza di aver trovato un nuovo amico.

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