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martedì 21 settembre 2010

L’ angelo vassallo si è portato con sé il mio mondo di paglia

Nove colpi sono bastati per frantumare la villa di cartapesta nella mia oasi di fittizia felicità. Ci fu un tempo in cui quattro muri grezzi e un tetto aguzzo erano una dignitosa casa tenuta in ordine da un’adorabile vecchina che era anche mia nonna. L’ingresso al cortile, sul retro, era segnalato da due bastoni in legno marcio distanti a malapena la larghezza di un’automobile. Più che un ingresso era un intervallo fra la vigna e la legna accatastata in attesa di ardere in prodigiosi fuochi invernali. Non c’era il cancello verde, pesante e mobile che slitta ora su un binario lucido ad ogni colpo di telecomando e permette di tenere a debita distanza i visitatori che, nell’ordine, devono: suonare il clacson, scampanellare al citofono, farsi riconoscere ed eventualmente, dopo autorizzazione, entrare. L’ispezione dura pochi secondi perché l’apertura, da anni, è stata spostata sul davanti in modo da avere sempre la faccia al nemico, mai le spalle. Ci fu un tempo in cui l’adorabile vecchina passava il pomeriggio seduta sulla panca in ferro battuto a guardare verso la strada. Nulla ostacolava il suo campo visivo e tutti potevano ammirarla nella sua ieratica compostezza contadina. La vecchina, oggi, avrebbe sofferto di claustrofobia morsa nella stretta del recinto alto tagliato a siepe, dei piccoli ulivi piantati a tutela della privacy, delle canne di bambù che svettano alte a proteggere da sguardi indiscreti. Ci fu un tempo in cui la casa della vecchina era difesa solo da un vecchio e malconcio portone sufficiente alla sua funzione: tenere al riparo dal freddo e dal vento. La vecchina, ogni sera, d’estate, spalancava le finestre prive di inferriate permettendo alla frescura di invadere gli spazi e fissava le zanzariere. Gli insetti erano la sua grande preoccupazione. La sfida di una vita fra lei e loro. Ci fu un tempo in cui la vecchina non saltava un appuntamento con il Tg delle venti, quando era ancora un servizio pubblico, e si incupiva, non si capacitava, realizzava l’esistenza di un altro mondo dove non preoccupavano solo gli insetti. Si è vero, qualche anno prima, un alone aveva offuscato il cielo blu cobalto che copriva le loro teste, ma era stata una nuvola di passaggio, un temporale. Come si chiamava? Come lo chiamavano? Don Qualcosa. L’avevano preso proprio lì vicino. Il giorno prima l’aveva incontrato alla bottega e il giorno dopo, paft, nelle prime pagine di tutti i giornali. La vecchina non sapeva leggere, ma l’aveva riconosciuto, glielo avevano detto. L’ ing. Califano era il “professore della Vesuviana”. Mio Dio, del resto si sa che il topo si nasconde dove il gatto non lo cercherà mai. Ci fu un tempo in cui, in una terra che già nel nome rivela le attese infinite e pazienti del Sud, non si conosceva la paura. Poi arrivò la droga e lo spaccio, poi i resort e i villaggi turistici, poi i porti e gli yatch, poi i rifiuti e le discariche, e gli interessi economici. Ci fu un tempo, ieri, in cui nove colpi hanno svegliato un popolo onesto e credulone che ingenuamente si sentiva esonerato da ogni prevaricazione. Nove colpi che hanno lacerato ogni corpo cilentano e frantumato la villa di cartapesta nella mia oasi di fittizia felicità. Ci fu un tempo, non troppo lontano, in cui nella casa dai muri grezzi si spense quell’adorabile vecchina, che era anche mia nonna, beatamente convinta che il problema del Cilento fossero gli insetti. Tiziana Rubano

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