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Un mestiere davvero pericoloso
Come concludere un excursus, sia pure sintetico, sulle innumerevoli trappole che costellano il cammino del cronista e dell'editorialista, del critico cinematografico e del direttore, tutti accomunati dall'essere, prima di tutto, giornalisti e, come tali, assoggettati ai limiti e alle conseguenze che abbiamo appena esaminato?
Vale davvero ancora la pena di fare questo mestiere, che contínua ad affascinare giovani e meno giovani, di cui è stata più volte pronosticata la fine, ma che continua a entusiasmare chi lo fa e chi lo vorrebbe fare?
La risposta è complessa, anche se un mondo senza informazioni è davvero difficile da immaginare e il conformismo nella comunicazione, al pari dell'omologazione del pensiero, che ridurrebbe l'alea del rischio, è forse il peggio che possa capitare a chi racconta, così come a chi legge o ascolta.
Se tutti i giornalisti, infatti, si limitassero a pubblicare le notizie ufficiali, provenienti dalle fonti istituzionali o dai diretti interessati, certo il lavoro sarebbe più semplice e meno stressante.
Basti pensare all'ufficio, istituito presso ogni Procura, che dovrebbe ufficializzare i risultati delle indagini più importanti, con appositi comunicati, destinati a fornire, però, una lettura di fatti e atti necessariamente di parte.
E allora un professionista dell'informazione deve essere un bravo segugio, un buon analista e avere una visione d'insieme che solo la continua attività di reperimento di fonti e documenti può garantire, certo con una buona dose d'ansia.
La preoccupazione maggiore deriva certamente dagli eventuali rischi economici, che non sempre l'editore è disponibile ad accollarsi e che il giornalista free lance o chi attiva un blog si assume ín proprio.
Si tratta di sanzioni il cui importo non è neppure preventivabile, non rispondendo a criteri fissi e prestabiliti e che, prima ancora, scoraggia la facilità con la quale una causa civile o penale può essere intentata, senza alcuna conseguenza apprezzabile se si dimostra infondata o addirittura pretestuosa.
E quella del giornalista è un'attività che non prevede polizze assicurative, in ragione sia della natura dolosa di molti dei reati ipotizzabili, sia degli iperbolici premi che le compagnie pretendono per garantire una sia pur parziale copertura, ad esempio, del reato del direttore, che è colposo, o della responsabilità civile dell'editore.
Il giornalista rischia poi — e molto — nei suoi rapporti con le fonti, qualche volta non del tutto attendibili, difficili da riscontrare, quando non interessate o addirittura inquinate, che non possono essere chiamate in giudizio a confermare quanto sussurrato, con la garanzia del silenzio sulla loro identità.
Fatica a ottenere documenti e atti giudiziari da chi ne ha la disponibilità, non avendo alcun diritto garantito per ottenerli ufficialmente, con inevitabili ricadute sul fronte della completezza dell'informazione, subordinata all'interesse, spesso assai particolare, di chi consegna solo quel che può giovare alla propria posizione.
E ancora il gusto dell'ironia, della polemica, dell'invettiva deve essere temperato dal rispetto dei destinatari, entro confini davvero opinabili; e lo scoop, sempre più raro, è soggetto ai limiti della privacy e a quell'essenzialità, spesso incompatibile con la voglia di raccontare il più possibile e con il diritto di sapere tutto quello che può aiutare a capire.
Qualcuno che si intende di fotografie, la nostra memoria storica di eventi irripetibili o di facce e situazioni che non
possono essere espresse con le parole, ha organizzato una mostra fotografica, pecettando i volti indimenticabili di persone sconosciute, di bambini divenuti simbolo di epoche passate.
Quale sarebbe l'impatto visivo della foto del bimbo ebreo polacco con le mani alzate, simbolo dell'Olocausto, o della piccola Kim Phunk che fugge terrorizzata e completamente nuda sotto le bombe al napalm in Vietnam, se ne avessimo dovuto coprire il volto, in ossequio alla Carta di Treviso e alla legge sul trattamento dei dati?
E tuttavia, la paura della condanna inappellabile, il timore di non potersi mai intestare un bene pignorabile, la corsa contro il tempo, il buco del collega più svelto, gli interventi censori sull'altare dell'opportunità o dell'opportunismo non sono sufficienti a dissuadere i giovani dal pagare per seguire master o dall'iscriversi alle numerose scuole di giornalismo o dal farsi sfruttare, con la prospettiva di un futuro, sempre meno probabile, contratto a tempo indeterminato; e non sono sufficienti neppure per staccare dalla tastiera le dita di giornalisti più attempati, che potrebbero lasciare patemi e rischi ai più giovani e godersi una pensione dignitosa che quelli non avranno, ma che preferiscono firmare contratti di collaborazione non certo faraonici, dopo essere stati rottamati troppo presto, per far fronte alla crisi dell'editoria e favorire nuove assunzioni, a volte rimaste sulla carta.
Sarà l'adrenalina che sale quando si sente di avere la notizia giusta, quando si sa di poter cambiare qualcosa, fermare una lottizzazione abusiva, evitare un sopruso, quando si pensa a tutte le persone che si possono convincere a pensare, riflettere, agire, protestare.
Sarà per questo e per molto altro che questo mestiere, davvero pericoloso, vivrà ancora a lungo, si modificherà certo, ma resterà sempre il mestiere più bello del mondo.