[Oreste Mottola orestemottola@gmail.com]
“Quello lì è il nostro duca”. Eh, scusami, dicevi?. “Che noi c’abbiamo il duca. Un duca vero. E’ quel signore che vedi. In carne ed ossa”. La mia perplessità aumenta. Siamo alla fine del 2004, i titoli nobiliari sono stati aboliti più di sessant’anni fa, la feudalità due secoli or sono, duca di cosa? “E’ il nostro, di Sicignano e di Galdo”. Lo guardo e non ho più bisogno di spiegazioni: ha il volto incorniciato da grandi favoriti, i basettoni alla maniera ottocentesca. Ha proprio la faccia del nobile, trasuda passato appena parla con la erre arrotata. “Sul paese, sulla sua storia, dovete parlare con mio fratello. Sapete, ha studiato ad Oxford. Io sono molto impegnato. Qui c’è stato anche Dumas. Sentiamoci un’altra volta. Le dò il numero di telefono del mio collaboratore. Per intanto si prenda questa riproduzione dell’inglese Craven. La disegnò nel 1818, quando passò da queste parti”. “On the road near Sicignano”, così si intitola. Fine del mio incontro con un pezzo di Sette, Ottocento che ancora sopravvive alle pendici dei monti Alburni. E’ il duca Giusso, quello del maniero sicignanese. “Il nostro Castello lo stiamo rimettendo a posto con le nostre forze”. Grazie Duca, lo visiteremo appena possibile. A Sicignano storie e leggende sono mescolate come raramente accade di vedere nei paesi vicini.
Fu durante il “ventennio” che l’autonomia dei piccoli paesi di Scorzo, Castelluccio Cosentino, Zuppino, Terranova e Sicignano, fu cancellata d’autorità e nacque un unico comune, Sicignano degli Alburni. Il nome lo presero da Sicinius, gregario di Caio Gracco, mandato a fare la Riforma Agraria Romana da queste parti. Questo non ha mai impedito la puntigliosa conservazione delle tradizioni locali. L’antica “Nares Lucanae”, ovvero Scorzo, di cavalli, muli, e di buon mangiare, se ne intendono da tempo: l’elenco della loro clientela illustre va, a farla breve, da Cicerone a Garibaldi. Qui c’era – fino alla costruzione dell’autostrada – il passaggio obbligato fra Sud e Nord d’Italia. “Chi passa pù Scuorzo e nun è sfruculiato, o è muorto o è carcerato”, si diceva e si ripete ancora oggi. Guido Rosolia, noleggia a chi ne fa richiesta, robusti muli per trasportare legna o castagne dalla montagna. Già la montagna. Continua ad attrarre i turisti. Dal nord Italia e dall’Europa più nordica. Arrivano con le cartine dove i sentieri sono tracciati, poi li trovano cancellati dall’incuria. “Questa più che un’area economicamente depressa è popolata da uomini depressi che amano farsi male da soli”, commenta Felice Colliani, l’ingegnere che ha imposto l’agriturismo in Campania. E’ suo il “Sicinius”, con quel grande salone per convegni, meetings, feste è arricchito da una monumentale focagna circolare. Il fiore all’occhiello è la sua enogastronomia tramandata con ricette di famiglia. Una volta ogni mese organizza un pranzo basato su un menu storico legato alle tradizioni più antiche. “Vendiamo incontri culturali non lavoriamo per i soldi”, proclama. Ed aggiunge: “Da noi nelle camere niente telefono, tv e campanello. Ci siamo noi”.
Oltre che con la cultura qui a Sicignano ti prendono per la gola. Il buon mangiare sicignanese: i cibi sono rigorosamente ipocalorici: lagane e ceci o caciocavallo arrostito, fusilli e ravioli o l’arrosto di carni miste. Scorzo, la prima frazione del paese, era una tappa per il viaggio nel Sud del Grand tour dei giovani inglesi e tedeschi dell’Ottocento. Prima i carrettieri e poi camionisti, i preti sempre e i briganti quando fu il loro tempo, vi hanno sempre aggiunto i vini locali ed una robusta peperonata. Come dargli torto: i sicignanesi per le cose buone hanno esperienza. Le loro prelibate salsicce, era il 58 a.C., le gustò finanche Marco Tullio Cicerone, mentre scappava precipitosamente da Roma, e ne scrisse sperticate lodi. A Galdo producono invece le migliori soppressate (salumi di carne di maiale) del salernitano. La loro ricetta è più segreta della formula con la quale, ad Atlanta, confezionano la Coca Cola. Nella macelleria da “Corrado” (è il papà della collega giornalista Romina Rosolia, penna de “La Città”), a Scorzo, si può approvigionare chi musulmano non è, e alla carne di maiale resta legato. A Castelluccio Cosentino, il paesino che, in autostrada, si vede sul cocuzzolo prima d’infilarsi nell’ultima galleria che porta nel Vallo di Diano, amano particolarmente preparare piatti con le rane cucinate in diversi modi. Anche la plebea acqua di fontana è ottima. A maggior lustro di una sorgente – che in agro di Sicignano, lungo il percorso della vecchia Consolare delle Calabrie – aveva calmato, nel 1793, la gagliarda sete della regina Carolina, fu costruita la monumentale “fontana della Regina”, ancora in funzione. Sicignano degli Alburni non è solo la tradizione legata all’attraversamento obbligato delle vecchie “Nares Lucanae”, tra Campania, Puglia, Lucania e Calabria, ma è un centro di provinciale ma assai solida cultura. Durante il fascismo, un ex emigrato in America, redigeva e stampava un giornale per tutta la zona: “La Gazzetta degli Alburni”. Con le cronache dei matrimoni della piccola borghesia locale, le nascite più illustri, le lauree e qualche innocente motteggio tra notabili. Quanto bastava per dare allora un tocco di modernità a modeste realtà paesane. In quegli stessi anni al seminario annesso al locale Convento dei Cappuccini, oggi malinconicamente ridotto a rudere, c’è colui che diventerà – sotto l’ala protettiva di Carlo Levi – remember “Cristo si è fermato ad Eboli” – l’inquieto poeta, romanziere, sociologo e politico Rocco Scotellaro, sua è una bellissima inchiesta sulla fine del latifondo nella Piana del Sele della fine degli anni Quaranta. E poi Candido Gallo che, oltre a svolgere il proprio apostolato come cappellano del San Leonardo, ha scritto decine di libri e la più palpitante cronaca dell’alluvione di Salerno del 1954.
LA MODA. Fino alla seconda metà degli anni Settanta, Sicignano degli Alburni è un paese à la page: dopo i bagni a Paestum o ad Agropoli, per molte famiglie napoletane, era di moda venirsi ad ossigenare per almeno quindici giorni nel luogo dove il bambino Rocco Scotellaro imparava a leggere dai frati cappuccini. Il sole non ama questo paese su cui incombe il Tirone, la parte dell’Alburno più maestoso. D’inverno quasi assente, il sole ricompare nella tarda primavera consentendo l’abbondante crescita di funghi e fragole, origano e timo, insieme con altre cento erbe aromatiche e medicamentose.
IL MUSEO. E’ privato, si apre – e volentieri – a richiesta: Tonino Tortorella, nella sua casa ospita l’esposizione di migliaia di vecchie fotografie e centinaia di mobili antichi. Sono i ricordi e oggetti salvati ad uno ad uno da questo singolare operatore culturale senza i galloni dell’ufficialità. Prima dell’allestimento del museo, una vita da emigrato in Svizzera, il ritorno e la scelta di fare – come gli avi – lo spazzacamino, servendosi delle scope ricavate dall’essiccazione delle felci dell’Alburno.
Fu durante il “ventennio” che l’autonomia dei piccoli paesi di Scorzo, Castelluccio Cosentino, Zuppino, Terranova e Sicignano, fu cancellata d’autorità e nacque un unico comune, Sicignano degli Alburni. Il nome lo presero da Sicinius, gregario di Caio Gracco, mandato a fare la Riforma Agraria Romana da queste parti. Questo non ha mai impedito la puntigliosa conservazione delle tradizioni locali. L’antica “Nares Lucanae”, ovvero Scorzo, di cavalli, muli, e di buon mangiare, se ne intendono da tempo: l’elenco della loro clientela illustre va, a farla breve, da Cicerone a Garibaldi. Qui c’era – fino alla costruzione dell’autostrada – il passaggio obbligato fra Sud e Nord d’Italia. “Chi passa pù Scuorzo e nun è sfruculiato, o è muorto o è carcerato”, si diceva e si ripete ancora oggi. Guido Rosolia, noleggia a chi ne fa richiesta, robusti muli per trasportare legna o castagne dalla montagna. Già la montagna. Continua ad attrarre i turisti. Dal nord Italia e dall’Europa più nordica. Arrivano con le cartine dove i sentieri sono tracciati, poi li trovano cancellati dall’incuria. “Questa più che un’area economicamente depressa è popolata da uomini depressi che amano farsi male da soli”, commenta Felice Colliani, l’ingegnere che ha imposto l’agriturismo in Campania. E’ suo il “Sicinius”, con quel grande salone per convegni, meetings, feste è arricchito da una monumentale focagna circolare. Il fiore all’occhiello è la sua enogastronomia tramandata con ricette di famiglia. Una volta ogni mese organizza un pranzo basato su un menu storico legato alle tradizioni più antiche. “Vendiamo incontri culturali non lavoriamo per i soldi”, proclama. Ed aggiunge: “Da noi nelle camere niente telefono, tv e campanello. Ci siamo noi”.
Oltre che con la cultura qui a Sicignano ti prendono per la gola. Il buon mangiare sicignanese: i cibi sono rigorosamente ipocalorici: lagane e ceci o caciocavallo arrostito, fusilli e ravioli o l’arrosto di carni miste. Scorzo, la prima frazione del paese, era una tappa per il viaggio nel Sud del Grand tour dei giovani inglesi e tedeschi dell’Ottocento. Prima i carrettieri e poi camionisti, i preti sempre e i briganti quando fu il loro tempo, vi hanno sempre aggiunto i vini locali ed una robusta peperonata. Come dargli torto: i sicignanesi per le cose buone hanno esperienza. Le loro prelibate salsicce, era il 58 a.C., le gustò finanche Marco Tullio Cicerone, mentre scappava precipitosamente da Roma, e ne scrisse sperticate lodi. A Galdo producono invece le migliori soppressate (salumi di carne di maiale) del salernitano. La loro ricetta è più segreta della formula con la quale, ad Atlanta, confezionano la Coca Cola. Nella macelleria da “Corrado” (è il papà della collega giornalista Romina Rosolia, penna de “La Città”), a Scorzo, si può approvigionare chi musulmano non è, e alla carne di maiale resta legato. A Castelluccio Cosentino, il paesino che, in autostrada, si vede sul cocuzzolo prima d’infilarsi nell’ultima galleria che porta nel Vallo di Diano, amano particolarmente preparare piatti con le rane cucinate in diversi modi. Anche la plebea acqua di fontana è ottima. A maggior lustro di una sorgente – che in agro di Sicignano, lungo il percorso della vecchia Consolare delle Calabrie – aveva calmato, nel 1793, la gagliarda sete della regina Carolina, fu costruita la monumentale “fontana della Regina”, ancora in funzione. Sicignano degli Alburni non è solo la tradizione legata all’attraversamento obbligato delle vecchie “Nares Lucanae”, tra Campania, Puglia, Lucania e Calabria, ma è un centro di provinciale ma assai solida cultura. Durante il fascismo, un ex emigrato in America, redigeva e stampava un giornale per tutta la zona: “La Gazzetta degli Alburni”. Con le cronache dei matrimoni della piccola borghesia locale, le nascite più illustri, le lauree e qualche innocente motteggio tra notabili. Quanto bastava per dare allora un tocco di modernità a modeste realtà paesane. In quegli stessi anni al seminario annesso al locale Convento dei Cappuccini, oggi malinconicamente ridotto a rudere, c’è colui che diventerà – sotto l’ala protettiva di Carlo Levi – remember “Cristo si è fermato ad Eboli” – l’inquieto poeta, romanziere, sociologo e politico Rocco Scotellaro, sua è una bellissima inchiesta sulla fine del latifondo nella Piana del Sele della fine degli anni Quaranta. E poi Candido Gallo che, oltre a svolgere il proprio apostolato come cappellano del San Leonardo, ha scritto decine di libri e la più palpitante cronaca dell’alluvione di Salerno del 1954.
LA MODA. Fino alla seconda metà degli anni Settanta, Sicignano degli Alburni è un paese à la page: dopo i bagni a Paestum o ad Agropoli, per molte famiglie napoletane, era di moda venirsi ad ossigenare per almeno quindici giorni nel luogo dove il bambino Rocco Scotellaro imparava a leggere dai frati cappuccini. Il sole non ama questo paese su cui incombe il Tirone, la parte dell’Alburno più maestoso. D’inverno quasi assente, il sole ricompare nella tarda primavera consentendo l’abbondante crescita di funghi e fragole, origano e timo, insieme con altre cento erbe aromatiche e medicamentose.
IL MUSEO. E’ privato, si apre – e volentieri – a richiesta: Tonino Tortorella, nella sua casa ospita l’esposizione di migliaia di vecchie fotografie e centinaia di mobili antichi. Sono i ricordi e oggetti salvati ad uno ad uno da questo singolare operatore culturale senza i galloni dell’ufficialità. Prima dell’allestimento del museo, una vita da emigrato in Svizzera, il ritorno e la scelta di fare – come gli avi – lo spazzacamino, servendosi delle scope ricavate dall’essiccazione delle felci dell’Alburno.
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