La
prima volta che mi è stato chiesto di intervenire ad un convegno per parlare di
Altavilla Silentina in qualità di storico dell’arte il mio primo impulso, lo
ammetto, è stato quello di cercare notizie precise sulle ricchezze artistiche
del capoluogo di cui all’epoca la mia conoscenza ancora peccava. Riconoscere ad
occhio la grandiosità di Sant’Egidio e San Biagio, immaginare il passato intricato
e glorioso del Castello e del Convento, piccoli mondi a parte, auspicare di
godere un giorno delle tele ancora confinate non sarebbe bastato a giustificare
la mia presenza. Tipico da me, volevo dati, date, informazioni, scritti,
ricerche, studi. Fu così che per la prima volta mi imbattei nella sua
straordinaria opera. Preparato il mio
discorso la gratitudine e la buona educazione mi obbligarono a citarlo e decisi
di chiudere con la frase sua che più avevo fatto mia. “Termino con il Professor
Paolo Tesauro Olivieri” dissi “che tanto ha dato alla memoria storica del
nostro paese e in un’occasione giudicò Altavilla Silentina fortunata e
sfortunata nello stesso tempo. Fortunata per la ridente posizione geografica,
sfortunata per l’isolamento secolare a cui è stata lasciata per ignavia e poca
lungimiranza dei nostri antenati”. Pleonasticamente invitavo poi a far tesoro
degli errori passati. Un appello ingenuo il mio caduto nel vuoto come i molti precedenti
dei soliti romantici. Oggi, mentre glielo racconto, scuote il capo, seduto composto
sulla poltrona. L’età avanzata, oltre i novanta, la coperta di lana sulle
ginocchia, le pantofole e l’abito da camera nulla tolgono alla classe e lo
stile del professore d’altri tempi. Di quelli che non esistono più. Non ho
bisogno di pregarlo perché è chiara la sua voglia di raccontare e regalarsi: “è
meglio dare che ricevere” mi dice. E allora inizia il suo racconto con la
lucidità di un ragazzone di vent’anni. Nato ad Altavilla il 19 dicembre del 1919, all’età di 16
anni si trasferisce a Campagna per frequentare l’Istituto Magistrale dove si
abilita nel 1938. Torna ad Altavilla per insegnare in località Galdo nella
proprietà di Antonino Gallo che gli è anche compare avendo battezzato il figlio
di questi Tarcisio, fratello di Padre Candido Gallo, altra fonte inesauribile
di ricordi e testimonianze. Nel 1940, date le condizioni critiche del tempo,
decide di arruolarsi nei Carabinieri e parte come allievo ufficiale. Appena
finito il corso, il 10 giugno davanti alla solita folla fedele accorsa sotto
Palazzo Venezia, Mussolini dichiara l’entrata in guerra pronunciando un
discorso che Montanelli in “Storia d’Italia” definisce un collage di pretesti. Paolo Tesauro Olivieri è mobilitato con il
Primo Reggimento Carabinieri e rimane tre mesi a Torino in attesa di partire
per la Francia che però, agonizzante, chiede l’armistizio. Insieme ai compagni
passa la frontiera orientale e sta per altri tre mesi in attesa di una
definizione dei rapporti con la Jugoslavia per essere, in caso, reintegrato in
prima linea. Intanto si decide per l’attacco alla Grecia e lui è inviato a
tenere il fronte di Valona. Ricorda che in quell’occasione perdono la vita
l’altavillese tenente Francesco Sambroia, padre della poi preside Emilia, e un
altro altavillese di cui gli sfugge il nome. Fra dispetti e scaramucce
infantili di Hitler e Mussolini la Grecia finisce nella tenaglia italo-tedesca
ed è costretta nel mese di aprile a chiedere anch’essa l’armistizio. Fino a
giugno il soldato aspetta un impiego poi è inserito nelle truppe di occupazione
in Grecia e rimane ad Atene per 15 mesi. Vantando un titolo di studio riesce a
rientrare a Firenze, lì si trattiene da settembre a dicembre per seguire e
terminare il corso da sottufficiale. La sua legione è Bolzano dove arriva per
operare al controllo passaporti in una frazione di confine. Dopo la data
memorabile dell’8 settembre cade prigioniero dei tedeschi. In Germania rimane
due anni ed è adibito come operaio e lavoratore alle caldaie. A questo periodo
è riferito il suo scritto Il redivivo di
Weimar. La mia prigionia nei “lagers” della Germania Nazista. Prima di
partire per il servizio militare si era fidanzato con una maestra di Salerno,
Giovanna Giovane, che sposa nel 1946 poco dopo il rientro dalla prigionia. Gli
avvenimenti bellici incidono profondamente sulla sua vita: dato l’esito,
accantona il desiderio
di proseguire gli studi da allievo ufficiale e decide per la carriera
scolastica. Segue un corso di due anni di magistrali, si prepara per il
concorso che vince nel 1948 quando è già padre da un anno della prima figlia.
Insegna in una quarta elementare di Albanella, poi nelle campagne: Riglio,
Molino Vecchio, Olivella. Quest’ultima sulla carta in quanto non avendo aule
disponibili il professore deve spostarsi a Galdo. Con la moglie, anche lei
insegnante, e il resto della famiglia vive in una casa in campagna di sua
proprietà. La vita è dura e per assicurare un futuro di studi ai figli, che nel
frattempo sono già tre, decide di chiedere il trasferimento. Prima destinazione
Scafati, poi Giovi, Mercatello, Vicinanza, Medaglie D’Oro dove finisce la carriera. Di tutto questo mi informa con
la precisione di un libro di storia e l’arte del romanziere. Mi tiene sospesa
ad un filo ad aspettare colpi di scena che abbondano in “una vita che non basta
un incontro a raccontarla” sussurra forse per incoraggiarmi a ripetere la visita. Un inizio difficile,
di sofferenze e un prosieguo non da meno: la mamma persa a tredici anni, il
secondo matrimonio del padre dopo due anni, gli altri figli di lui e poi la
guerra, la miseria, la prigionia fino agli anni più sereni della maturità. Altavilla
in questa lunga esistenza gioca un ruolo di primo piano nonostante, a conti
fatti, fra assenze per motivi di studio, guerra e definitivo abbandono nel 1957
lì ci viva meno di un ventennio. Le ragioni del suo attaccamento non fatico ad
intuirle perché sono le stesse mie e non mi stupisco quando mi confessa che
prova fastidio al pensiero che del suo lavoro si siano interessati soprattutto
“quelli che stanno fuori”. Si riferisce a me e quelli che mi hanno preceduto: Nadia Parlante , Bruno Di
Venuta, Gerardo Iorio ,
Oreste Mottola ,
il quale quest’ultimo è anch’egli in parte emigrante ed “ha fatto bene a scegliere
Capaccio e Unico” perché ad Altavilla si “fascia e si sfascia”. Viene fuori la
sua rabbia. Non si capacita dell’esistenza di realtà editoriali di prestigio e
lunga vita in comuni minori come Postiglione e Controne, per non parlare delle
chiese chiuse, i quadri scomparsi e il Castello in stato di abbandono da anni.
Mi vuole convincere che ormai non patisce più al pensiero del degrado diffuso
del paese perché “è sempre stato così” e continua “quando io vivevo ad
Altavilla non esistevano sbocchi nella parte alta. Ora almeno ci sono le
strade, è già qualcosa”. L’accondiscendenza però dura poco, prende fiato e
riparte con tono duro: “quando ero giovane per lo meno c’erano i cantonieri,
pulivano le cunette, ora che fanno? È caduto anche quel muro (si riferisce all’ultima
frana)...e le campagne? Le abbiamo abbandonate”. (continua ... ) È una miniera di citazioni. Da
William E. Gladstone, più volte ministro inglese, che nomina asserendo la
necessità di investire i guadagni dell’industria nell’agricoltura per ottenere
uno sviluppo omogeneo del territorio alle vicissitudini e parentele dell’ imperatore
Augusto, da Giustino Fortunato a cui si aggancia per parlare dell’isolamento atavico
del Cilento e degli Alburni a Guido Gozzano, nato lo stesso suo giorno che ci permette
un veloce e piacevole ripasso dei concetti fondamentali del decadentismo. E poi
Dante che “venera come un santo”. Il sommo poeta di cui segue la via lasciata e
assume a comandamento il verso di una delle cantiche più atroci, la
ventottesima: “coscienza m’assicura, la buona compagnia che l’uom francheggia
sotto l’asbergo del sentirsi pura” ossia la coscienza rende sicuri poiché è valente
compagnia e infonde coraggio all’uomo sotto la protezione della sua purezza. E
ancora il Poeta per antonomasia da cui prende in prestito la “morte mi darà
fama e riposo” con la quale ironicamente ammette che avrebbe meritato un’attenzione
maggiore. Un riconoscimento almeno, dico io. Ma è troppo modesto per
rinforzare. Scuote di nuovo il capo e si tuffa nel mare dei ricordi. “Sono di
Altavilla, le mie radici sono lì, soprattutto quella materna. I Tesauro
venivano da Bellosguardo e sono arrivati ad Altavilla tardi, nel 1850. Gli
Olivieri, invece, ci sono dal 1578. Ho due cognomi perché mia madre non aveva
fratelli maschi e siccome Olivieri è uno dei cognomi più antichi di Altavilla, lei
nel testamento ha scritto che sarebbe stata orgogliosa se i figli lo avessero
ereditato. Nel 1956 ho avuto l’autorizzazione dal Presidente della Repubblica.
Allora il ministro di grazia e giustizia era Aldo Moro, lui firmò il mio
decreto. Amo Altavilla anche per questo: la mia è una famiglia antica, in
passato molto in vista; mio nonno è stato consigliere, vice sindaco”. Come è
arrivato a scrivere? A impegnarsi nella ricerca storica? “Qui a Salerno avevo
ovviamente parecchie amicizie e colleghi. Con loro parlavo di storia e di
letteratura. Mi dicevano: sai tante cose perché non ti iscrivi all’Università?
Perché me ne devo andare in pensione, rispondevo. Ma io già scrivevo. Il primo
libro è stato Annali dell’Associazione
Maestri Cattolici poi Quattro secoli
di memorie, dove ho parlato dei quattro secoli della famiglia Olivieri ad
Altavilla. Questo prima di laurearmi. Poi un collega, un maestro come me, si è
iscritto a Pedagogia e il suo gesto mi ha convinto. Così nel 1973 mi sono iscritto a
Lettere e nel 1978 mi
sono laureato in Materie Letterarie. Ho sempre continuato a scrivere”.
Soprattutto del paese natio. “Sì. Su Altavilla ho pubblicato 30/40 lavori. Mi
sono occupato dei quadri, delle chiese, di San Biagio, Sant’Egidio. Molti libri
si trovano anche nella Biblioteca Comunale”. Peccato sia chiusa da quando
l’ultimo dipendente è andato in pensione − evito di puntualizzare per non
rincarare la dose. “Ho cercato di ficcare il naso, di penetrare nelle parti più
impensate fino a quando, nel 1987, di ritorno da una delle mie incursioni ebbi
un incidente automobilistico all’altezza dell’autostrada di Pontecagnano e i
miei figli dissero che non ci dovevo più andare. Ci sono stato l’ultima volta
nel 2009 con mio nipote”. Mi porge un libricino che ha recuperato per me, Orazio Solimene. Artista, personaggio
benemerito Comproprietario del Feudo di Altavilla Silentina nella Seconda Metà
del Settecento nel quale è ben esplicitata la tesi che mi spiega in
sintesi. È riduttivo intitolare la strada più lunga del paese genericamente al
Solimene, bisognava intitolarla a Orazio Solimene che “non si può non
riconoscere, fra i Solimene, il maggiore benefattore nella Terra di Altavilla
(...) dove ha lavorato con mente e cuore, lasciando pregevoli tele”[1].
Francesco, lo zio, considerato uno degli artisti che meglio incarnarono la
cultura tardo-barocca in Italia, ormai ottuagenario, probabilmente neanche vide
mai quella terra acquistata con suo denaro. Orazio invece, a differenza dei
fratelli Gabriele e Gennaro più legati alle cose terrene, “pennelleggiando
accanto allo zio, si affezionò tanto alla pittura e alle arti belle che non le
lasciò più”[2] ed
ebbe, inoltre, il merito di portare ad Altavilla artisti come Giambattista Vela
e Nicola Peccheneda oltre che far innamorare dell’arte figurativa un giovane
altavillese, tal Saverio Mottola che lasciò al paese, come gli altri due,
diversi dipinti.
L’odore di minestra che arriva dalla cucina mi avverte che ormai ho poco
tempo a disposizione. Una graziosa donnina sta apparecchiando una tavola
semplice e curata. Siamo nel centocinquantesimo dell’Unità d’Italia, dunque
prima di salutarlo, non posso esimermi dalle domande di rito. “Ricordo un
episodio” riprende come se narrasse dell’altro giorno “che mi raccontava mia
nonna. Lei apparteneva ad una famiglia benestante, i Pipino, proprietari della
casa dietro il Consorzio a Cerrelli. Una sera, quando aveva più o meno 12 anni,
subito dopo l’Unità, due briganti fermarono il padre di ritorno dai campi,
sulla strada del Magazzeno. Lui era a cavallo e gli ordinarono di scendere e
seguirli. Lo portarono nella zona Ripalta che è un’ansa del fiume Calore, lì lo
tennero per tre giorni e mandarono a dire alla famiglia che per la liberazione
dovevano pagare. Erano della banda Tranchella. Ho anche una chiara immagine di Francesca
Cerniello negli ultimi anni di vita. Deve essere morta verso il 1926/27. Aveva
gli occhi cisposi, scalza, brutta, scarmigliata, grassa, doveva pesare almeno
un quintale. Capelli grigi non bianchi. Sedeva sempre sul poggetto che c’era
davanti al tabacchino e così passava le giornate, sola, emarginata per via del
suo passato che non faceva onore al paese. Per due tre giorni nessuno la vide,
poi la trovarono morta. Anche i topi l’avevano rosicchiata”. A proposito della
condizione attuale del Sud mi risponde secco: “la mia vita militare l’ho
trascorsa quasi tutta in alta Italia e ho visto come si agisce lì, in Piemonte,
Veneto, Lombardia. Qui pensano solo all’assistenza”. Ci lasciamo trascinare di
nuovo dal flusso dei discorsi a catena e di balzo in balzo arriviamo a parlare
di Giotto, Michelangelo, dei Vangeli, degli interessi milionari che alimentano
il calcio, su cui anche è preparatissimo, dell’esempio dato ai giovani dai
briosi lunedì sera a colpi di Grande Fratello. Un volo pindarico per tornare ad
Altavilla. Non può essere altrimenti. Su mia richiesta mi parla di Piero Chiara
e Il Balordo, del caro amico Giuseppe
Galardi, del maestro Cecchino Di Verniere e della solita invidia altavillese
che continua ad irritarlo e non mi sento di negare. Mi trattengo ancora un po’
sulla porta per non perdere nulla di quell’incontro, fatico a congedarmi, ad
allontanarmi da quello scrigno di saperi. Quel sorso d’acqua pura non mi ha
dissetato del tutto. Il piatto che si posa sulla tavola è un educato messaggio
della badante. Lo ringrazio con voce tremula ansiosa ora di correre a casa per
congelare le emozioni su un pezzo di carta. “Ho studiato e pubblicato per
arricchirmi e trasmetterlo agli altri perché la cultura non deve essere trattenuta
ma trasmessa. Come diceva Mazzini: miglioratevi per migliorare”. Chiude
confessandomi il suo rammarico: non aver studiato il greco. Penso a Socrate: una
vita senza ricerca non vale la pena di essere vissuta, sosteneva. Tiziana
Rubano
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