Pubblicato su carta sin dal 1993, è uno dei più longevi periodici dell'area della Piana del Sele e Cilento. La Collina degli Ulivi online vuole essere ancora di più un luogo di informazione, ascolto e diffusione di idee, anche attraverso l'interazione in tempo reale con i suoi lettori in ogni parte del mondo.

lunedì 11 marzo 2013

Giustino Fortunato, sulle vette del Terminio

Fortunato, sulle vette del Terminio



04/03/2013
Giustino Fortunato (1848-1932) nacque a Rionero in Vulture da una famiglia originaria di Giffoni Sei Casali (SA), ai confini con i monti di Serino. Come Deputato del Regno d’Italia coninuò a mantenere accesa la fiaccola del Mazzini e del De Sanctis di volere una Italia Repubblicana, tanto da fondare il giornaletto “L’Unità Nazionale”. Insieme a Pasquale Villari e Gaetano Salvemini fondò anche un gruppo socio-politico di pensatori detti appunto “Meridionalisti”, per presentare e affrontare i problemi socio-economici del Mezzogiorno d’Italia dopo l’Unificazione. Questo gruppo subito si rese conto che il governo centrale favoriva lo sviluppo del Nord a discapito del Sud Italia, dando inizio alla ormai secolare Questione Meridionale: “L’Unità d’Italia è stata e sarà—ne ho fede invitta—la nostra redenzione morale. Lo Stato profonde i suoi benefici finanziati nelle province settentrionali in misura ben maggiore che nelle meridionali”, il Fortunato disse in un intervento al Parlamento. Insieme al Salvemini, a Benedetto Croce, a Ignazio Silone, Elio Vittorini, Carlo Levi, Giacomo Matteotti… Giustino Fortunato fu anche uno dei primi intellettuali a vedere le nefarie minacce del fascismo nella vita italiana, subito dopo la marcia su Roma del 28 ottobre 1922.
Nel 1979 Giustino Fortunato portò a termine una vera scalata al Monte Terminio di Serino, uno dei simboli della verde Irpinia. Il Fortunato la descrisse come se fosse stata una scalata al Monte Olimpo per stare in compagnia di Giove, di Giano, di Saturno, di Apollo... La descrizione della salita al Terminio si trova nel libro: “L’Irpinia, i suoi monti, le sue valli e le sue tradizioni di Civiltà e di Cultura nel ricordo di Giustino Fortunato”.

SU E GIÙ PER IL TERMINIO

Catene di monti sfumanti e ondeggianti quasi nuvole dall’estremo orizzonte, mi davano come una vaga sensazione di quell’ignoto, di quell’interminabile, di quell’infinito che tanto affatica la mente…Quegli accordi misteriosi, quelle voci indefinite, che non si sa donde vengano e che compongono la stupenda sinfonia della natura… Sentii che la montagna è la regina della natura, regina indomita e superba, simbolo della sua forza e del suo mistero, della sua purezza incontaminata: la prima che il sole imporpori, l’ultima che esso abbandoni.
Ciò che veramente dà carattere al Terminio è la forma conica de’ suoi monti boscosi, che divisi fra di loro da piccoli pianori pratiferi, s’inseguono l’un l’altro in varie concatenazioni. Facendo nucleo intorno alla Celica, il Terminio è confine e displuvio a’ due Principati. Dal mezzo della giogaia scaturiscono ad angolo acuto il Sabato e il Calore sul versante di Avellino; il Tusciano e il Picentino sul Golfo di Salerno. Scorre il Sabato da vive sorgenti fuor de’ campi di Serino, dalla Valle di Montella esce rumoroso, a Cassano, il Calore, il quale fattoglisi incontro nelle vicinanze di Benevento, raccoglie a mano a mano i tre affluent dall’altipiano irpino. A questo modo il Terminio determina quasi tutto il sistema idrografico della Campania, dalla foce del Sele a quella del Volturno.
Una escursione nella giogaia del Terminio, era da qualche anno, il mio disegno favorito. Ma, poco nota agli studiosi di botanica e di geologia, mancava al mio intento ogni notizia di un possible itinerario; e d’altra parte la insicurezza dei luoghi, sebbene non si udisse più parlare di bande di briganti, rendeva vano tra gli amici della sezione napoletana, ogni disegno di tentativo. Pur mirando spesse volte al Vesuvio quell’ammasso di monti a cime isolate, io non sapevo rassegnarmi ad abbandonare l’impresa. Sull’annottare del 28 luglio scendevamo alla stazione di Sanseverino; e traversati in carrozza i casali di Montoro, che festeggiavano con luminarie e con fuochi d’artifizio non so qual santo protettore, poco prima delle 10 entravamo a Solofra, a qull’ora già muta e deserta. Alloggiati lì presso, in locanda, alle 5 eravamo già pronti a partire per i Mai. Sono i Mai tre punte solitarie di poco ineguali, che si elevano nude all’estremo capo della catena principale; ad esse si connettano i due baluardi maestrali del San Michele a sinistra e del Garofano a destra, tra cui si annida Solofra.
Saliti per Turci sostavamo già in alto a vista di tutta l’ombrosa vallata del Sabato, dinanzi alla mole superba del Terminio e lì fuori a manca ci sorrideva isolato il bel Partenio, alla cui sommità, perduto come un nido di aquila, riluceva candido il Santuario di Montevergine. Piegando a man diritta bisogno dare la scalata, l’un dopo l’altra, a tutte quelle cime rocciose, su le quali a stento fiorisce il garofano silvestre. Scorsero faticosissime due lunghe ore nel salire e nello scendere—senza il più leggero alito di vento e sotto il cielo di metallo—dal Monte Faito alla Serra del Torrone, dal monte Garofalo al Varco della Teglia. Ma lassù eran già le 9, non si respirava che un’aria infuocata. La rapidissima discesa nel vallone della Tornola non fece se non accrescere quell’afa insoffribile di fornace; ma entrati in un bosco che con ansia guardavamo da più tempo, un mormorio di acqua ci risuonò all’orecchio come la più bella musica del mondo, e assetati, corremmo alla sorgente: la più copiosa, la più pittoresca che abbia mai visto. Ivi sedemmo a riposo, nè mai come allora io sentii nell’animo la poesia delle Naiadi e delle Draidi antiche: caste fanciulle immortali, cui Giove affidò in custodia le fonti e le selve delle alte montagne: E salubri ruscelli ed auree antiche benefiche all’abitatore delle valli.

LE MURA DELLA CIVITA

Così rinfrancati dal caldo sofferto, scendevamo per i campi dell’Ogliara, che si stendono su a destra, fino a un rudere della CIVITA, forse l’antica Sabatia degli Irpini, miseramente devastata da’ Romani in punizione di aver parteggiato per Annibale nella seconda guerra punica. E, passato a piede asciutto il greto del Sabato, salivamo su all’antica aia colonica della Casa del Principe, a’ piedi del Monte Terminio, ove già avevamo deciso di passare la notte. Cascavamo dalla fame; e bisognò aspettare quattro lunghissime ore, prima che un bracciante del luogo fosse di ritorno con qualche cibo da Serino.
All’alba del 30, mezz’ora prima delle 5, ripigliammo la via per la costa della Falconara, e dopo solo due ore di salita ne fummo a capo sul prato Lasperto, chiuso da pendici ammantate di faggi. Era la più fresca mattinata che si potesse sperare, placida, come il più bel giorno d’aprile. Traendoci a mano manca, guadagnammo un’altura dell’enorme scoscendimento della Ripa Cannella, il quale cadendo giù a piombo fra il Monte Vernacolo e il Colle di Basso, dà a tutto il versante occidentale del Montagnone la forma concava d’un ferro di cavallo. Ripiegando di là, nella fitta ombra del bosco, toccammo poco dopo il Varco di Collelungo, e tosto prendemmo di petto l’erta dell’ultima falda, su cui si abbarbicano a forza vecchi faggi, da’ rami pendent e da tronchi ritorti, attrappiti e scoriati per i geli e per le nevi d’inverno.
In punto alle otto, ansanti dalla corsa, giungemmo sulla cresta maggiore del Terminio, la cresta a mezzogiorno, in cima a cui fu innalzato dallo Stato maggiore il segnale trigonometrico. Sedevamo sulla cresta maggiore della giogaia, la sola che ricordi la bella flora dell’Appennino. L’ora limpida e tranquilla non poteva essere più propizia al nostro arrivo. La veduta era estesissima, a noi dintorno, e dappertutto—dai poggi irpini ai contrafforti lucani, dall’acuminato Vesuvio all’ampio Vulture sorridente, sui monti e valli di mille colori, fra cielo e mare di una sola tinta cilestrina—dappertutto regnava una quiete dolcissima e splendeva una luce tersa e dorata, che dava all’animo non so quale impressione profonda di calma e di riposo. La Celica, l’aerea, arditissima Celica fatta a mo’ di forca, attirava distinto lo sguardo a cinque miglia in linea retta e, come tutte le altezze solitarie flagellate dai venti, predominava maestosa e solenne. E a quel modo che l’occhio, anche il pensiero errava qua e là a caso.
Mi ricordo tuttora di certe ultime catene di monti, sfumate e ondeggianti quasi nuvole all’estremo orizzonte, che mi davano come una certa sensazione di quell’ignoto, di quell’interminabile, di quell’infinito che tanto affatica la mente; e tutti quei dossi della giogaia sottostante, rigogliosi di vergini selve, mi raffiguravano alla fantasia, l’avida gioia dei primi emigranti, l’ansia dei primi scopritori di una terra sconosciuta, che dal monte corressero alle valli forti di giovinezza e di speranza; e a quel modo che l’occhio, anche il pensiero errava qua e là a caso. Quando ci levammo da sedere, non so quali sogni mi frullassero per il capo, ma certo mi sentivo più lieto e più leggero che mai.
Dando indietro per il versante orientale, ci rimettemmo a pochi passi dalla vetta, nella grande ombra dei faggi, che divenivano più robusti e fronzuti a misura che discendevano per il Vallone degli Uccelli; e là in quell’ambito di vegetazione, fra gli acri profumi dei licheni, in quelle armoniose vibrazioni dell’aria, ci pareva di godere più piena e più dura la coscienza della vita. Il sole mandava per gli interstizii lievi raggi sottili, e gettava a terra sull’umido fogliame caduto, piccoli cerchietti lucidi e ridenti: da per ogni dove, ad ogni fuga di valloncelli, ad ogni falda, ad ogni cima lontana, non comparivano se non verdi boscaglie sotto un azzurro di paradiso, verdi boscaglie vigorose di cento tinte dall’opalino al più cupo smeraldo. Provavo quel benessere indefinibile, che i grandi spettacoli della natura sogliono infondere nel cuore dell’uomo. Sostavo ad asciolvere in su la vena cristallina dell’Acqua della Pietra, che si svolge come nastro d’argento per una conca tappezzata di erba, e riprendendo il cammino a mezzo del Piano di Verteglia, che è davvero la più deliziosa Valletta che si possa immaginare, io pensavo all’età mitologica dell’oro, al beato regno di Giano e di Saturno, ai buoni terrigeni pastori del nostro Appennino; pensavo alla gentile egloga virgiliana, all’idillio amoroso di Dafne e Cloe, alle primavera sacre degli antichi popoli italiaci.

In ricordo della scalata al Terminio di Giustino Fortunato la Pro loco di Serino ogni anno sponsorizza la notte “Terminio sotto le Stelle”. Dedico questo lavoro alla memoria del Francescano Professor Floro Di Zenzo, che si prodigò nell’aiuto del popolo di Serino durante il terremoto del 23 Novembre 1980. Padre Floro offrì un notevole contributo alle prime ricerche archeologiche della Civita e ai susseguenti parziali restauri delle Mura. Discutemmo di questo in una visita insieme alle Mura della Civita. Frater et Magister carissime, Ave atque vale.


Raffaele Di Zenzo

Nessun commento:

Posta un commento