04/03/2013Giustino
Fortunato (1848-1932) nacque a Rionero in Vulture da una famiglia
originaria di Giffoni Sei Casali (SA), ai confini con i monti di Serino.
Come Deputato del Regno d’Italia coninuò a mantenere accesa la fiaccola
del Mazzini e del De Sanctis di volere una Italia Repubblicana, tanto
da fondare il giornaletto “L’Unità Nazionale”. Insieme a Pasquale
Villari e Gaetano Salvemini fondò anche un gruppo socio-politico di
pensatori detti appunto “Meridionalisti”, per presentare e affrontare i
problemi socio-economici del Mezzogiorno d’Italia dopo l’Unificazione.
Questo gruppo subito si rese conto che il governo centrale favoriva lo
sviluppo del Nord a discapito del Sud Italia, dando inizio alla ormai
secolare Questione Meridionale: “L’Unità d’Italia è stata e sarà—ne ho
fede invitta—la nostra redenzione morale. Lo Stato profonde i suoi
benefici finanziati nelle province settentrionali in misura ben maggiore
che nelle meridionali”, il Fortunato disse in un intervento al
Parlamento. Insieme al Salvemini, a Benedetto Croce, a Ignazio Silone,
Elio Vittorini, Carlo Levi, Giacomo Matteotti… Giustino Fortunato fu
anche uno dei primi intellettuali a vedere le nefarie minacce del
fascismo nella vita italiana, subito dopo la marcia su Roma del 28
ottobre 1922.
Nel 1979 Giustino Fortunato portò a termine una vera scalata al Monte
Terminio di Serino, uno dei simboli della verde Irpinia. Il Fortunato
la descrisse come se fosse stata una scalata al Monte Olimpo per stare
in compagnia di Giove, di Giano, di Saturno, di Apollo... La descrizione
della salita al Terminio si trova nel libro: “L’Irpinia, i suoi monti,
le sue valli e le sue tradizioni di Civiltà e di Cultura nel ricordo di
Giustino Fortunato”.
SU E GIÙ PER IL TERMINIO
Catene di monti sfumanti e ondeggianti quasi nuvole dall’estremo
orizzonte, mi davano come una vaga sensazione di quell’ignoto, di
quell’interminabile, di quell’infinito che tanto affatica la
mente…Quegli accordi misteriosi, quelle voci indefinite, che non si sa
donde vengano e che compongono la stupenda sinfonia della natura… Sentii
che la montagna è la regina della natura, regina indomita e superba,
simbolo della sua forza e del suo mistero, della sua purezza
incontaminata: la prima che il sole imporpori, l’ultima che esso
abbandoni.
Ciò che veramente dà carattere al Terminio è la forma conica de’ suoi
monti boscosi, che divisi fra di loro da piccoli pianori pratiferi,
s’inseguono l’un l’altro in varie concatenazioni. Facendo nucleo intorno
alla Celica, il Terminio è confine e displuvio a’ due Principati. Dal
mezzo della giogaia scaturiscono ad angolo acuto il Sabato e il Calore
sul versante di Avellino; il Tusciano e il Picentino sul Golfo di
Salerno. Scorre il Sabato da vive sorgenti fuor de’ campi di Serino,
dalla Valle di Montella esce rumoroso, a Cassano, il Calore, il quale
fattoglisi incontro nelle vicinanze di Benevento, raccoglie a mano a
mano i tre affluent dall’altipiano irpino. A questo modo il Terminio
determina quasi tutto il sistema idrografico della Campania, dalla foce
del Sele a quella del Volturno.
Una escursione nella giogaia del Terminio, era da qualche anno, il mio
disegno favorito. Ma, poco nota agli studiosi di botanica e di geologia,
mancava al mio intento ogni notizia di un possible itinerario; e
d’altra parte la insicurezza dei luoghi, sebbene non si udisse più
parlare di bande di briganti, rendeva vano tra gli amici della sezione
napoletana, ogni disegno di tentativo. Pur mirando spesse volte al
Vesuvio quell’ammasso di monti a cime isolate, io non sapevo rassegnarmi
ad abbandonare l’impresa. Sull’annottare del 28 luglio scendevamo alla
stazione di Sanseverino; e traversati in carrozza i casali di Montoro,
che festeggiavano con luminarie e con fuochi d’artifizio non so qual
santo protettore, poco prima delle 10 entravamo a Solofra, a qull’ora
già muta e deserta. Alloggiati lì presso, in locanda, alle 5 eravamo già
pronti a partire per i Mai. Sono i Mai tre punte solitarie di poco
ineguali, che si elevano nude all’estremo capo della catena principale;
ad esse si connettano i due baluardi maestrali del San Michele a
sinistra e del Garofano a destra, tra cui si annida Solofra.
Saliti per Turci sostavamo già in alto a vista di tutta l’ombrosa
vallata del Sabato, dinanzi alla mole superba del Terminio e lì fuori a
manca ci sorrideva isolato il bel Partenio, alla cui sommità, perduto
come un nido di aquila, riluceva candido il Santuario di Montevergine.
Piegando a man diritta bisogno dare la scalata, l’un dopo l’altra, a
tutte quelle cime rocciose, su le quali a stento fiorisce il garofano
silvestre. Scorsero faticosissime due lunghe ore nel salire e nello
scendere—senza il più leggero alito di vento e sotto il cielo di
metallo—dal Monte Faito alla Serra del Torrone, dal monte Garofalo al
Varco della Teglia. Ma lassù eran già le 9, non si respirava che un’aria
infuocata. La rapidissima discesa nel vallone della Tornola non fece se
non accrescere quell’afa insoffribile di fornace; ma entrati in un
bosco che con ansia guardavamo da più tempo, un mormorio di acqua ci
risuonò all’orecchio come la più bella musica del mondo, e assetati,
corremmo alla sorgente: la più copiosa, la più pittoresca che abbia mai
visto. Ivi sedemmo a riposo, nè mai come allora io sentii nell’animo la
poesia delle Naiadi e delle Draidi antiche: caste fanciulle immortali,
cui Giove affidò in custodia le fonti e le selve delle alte montagne: E
salubri ruscelli ed auree antiche benefiche all’abitatore delle valli.
LE MURA DELLA CIVITA
Così rinfrancati dal caldo sofferto, scendevamo per i campi
dell’Ogliara, che si stendono su a destra, fino a un rudere della
CIVITA, forse l’antica Sabatia degli Irpini, miseramente devastata da’
Romani in punizione di aver parteggiato per Annibale nella seconda
guerra punica. E, passato a piede asciutto il greto del Sabato, salivamo
su all’antica aia colonica della Casa del Principe, a’ piedi del Monte
Terminio, ove già avevamo deciso di passare la notte. Cascavamo dalla
fame; e bisognò aspettare quattro lunghissime ore, prima che un
bracciante del luogo fosse di ritorno con qualche cibo da Serino.
All’alba del 30, mezz’ora prima delle 5, ripigliammo la via per la costa
della Falconara, e dopo solo due ore di salita ne fummo a capo sul
prato Lasperto, chiuso da pendici ammantate di faggi. Era la più fresca
mattinata che si potesse sperare, placida, come il più bel giorno
d’aprile. Traendoci a mano manca, guadagnammo un’altura dell’enorme
scoscendimento della Ripa Cannella, il quale cadendo giù a piombo fra il
Monte Vernacolo e il Colle di Basso, dà a tutto il versante occidentale
del Montagnone la forma concava d’un ferro di cavallo. Ripiegando di
là, nella fitta ombra del bosco, toccammo poco dopo il Varco di
Collelungo, e tosto prendemmo di petto l’erta dell’ultima falda, su cui
si abbarbicano a forza vecchi faggi, da’ rami pendent e da tronchi
ritorti, attrappiti e scoriati per i geli e per le nevi d’inverno.
In punto alle otto, ansanti dalla corsa, giungemmo sulla cresta maggiore
del Terminio, la cresta a mezzogiorno, in cima a cui fu innalzato dallo
Stato maggiore il segnale trigonometrico. Sedevamo sulla cresta
maggiore della giogaia, la sola che ricordi la bella flora
dell’Appennino. L’ora limpida e tranquilla non poteva essere più
propizia al nostro arrivo. La veduta era estesissima, a noi dintorno, e
dappertutto—dai poggi irpini ai contrafforti lucani, dall’acuminato
Vesuvio all’ampio Vulture sorridente, sui monti e valli di mille colori,
fra cielo e mare di una sola tinta cilestrina—dappertutto regnava una
quiete dolcissima e splendeva una luce tersa e dorata, che dava
all’animo non so quale impressione profonda di calma e di riposo. La
Celica, l’aerea, arditissima Celica fatta a mo’ di forca, attirava
distinto lo sguardo a cinque miglia in linea retta e, come tutte le
altezze solitarie flagellate dai venti, predominava maestosa e solenne. E
a quel modo che l’occhio, anche il pensiero errava qua e là a caso.
Mi ricordo tuttora di certe ultime catene di monti, sfumate e
ondeggianti quasi nuvole all’estremo orizzonte, che mi davano come una
certa sensazione di quell’ignoto, di quell’interminabile, di
quell’infinito che tanto affatica la mente; e tutti quei dossi della
giogaia sottostante, rigogliosi di vergini selve, mi raffiguravano alla
fantasia, l’avida gioia dei primi emigranti, l’ansia dei primi
scopritori di una terra sconosciuta, che dal monte corressero alle valli
forti di giovinezza e di speranza; e a quel modo che l’occhio, anche
il pensiero errava qua e là a caso. Quando ci levammo da sedere, non so
quali sogni mi frullassero per il capo, ma certo mi sentivo più lieto e
più leggero che mai.
Dando indietro per il versante orientale, ci rimettemmo a pochi passi
dalla vetta, nella grande ombra dei faggi, che divenivano più robusti e
fronzuti a misura che discendevano per il Vallone degli Uccelli; e là in
quell’ambito di vegetazione, fra gli acri profumi dei licheni, in
quelle armoniose vibrazioni dell’aria, ci pareva di godere più piena e
più dura la coscienza della vita. Il sole mandava per gli interstizii
lievi raggi sottili, e gettava a terra sull’umido fogliame caduto,
piccoli cerchietti lucidi e ridenti: da per ogni dove, ad ogni fuga di
valloncelli, ad ogni falda, ad ogni cima lontana, non comparivano se non
verdi boscaglie sotto un azzurro di paradiso, verdi boscaglie vigorose
di cento tinte dall’opalino al più cupo smeraldo. Provavo quel benessere
indefinibile, che i grandi spettacoli della natura sogliono infondere
nel cuore dell’uomo. Sostavo ad asciolvere in su la vena cristallina
dell’Acqua della Pietra, che si svolge come nastro d’argento per una
conca tappezzata di erba, e riprendendo il cammino a mezzo del Piano di
Verteglia, che è davvero la più deliziosa Valletta che si possa
immaginare, io pensavo all’età mitologica dell’oro, al beato regno di
Giano e di Saturno, ai buoni terrigeni pastori del nostro Appennino;
pensavo alla gentile egloga virgiliana, all’idillio amoroso di Dafne e
Cloe, alle primavera sacre degli antichi popoli italiaci.
In ricordo della scalata al Terminio di Giustino Fortunato la Pro loco
di Serino ogni anno sponsorizza la notte “Terminio sotto le Stelle”.
Dedico questo lavoro alla memoria del Francescano Professor Floro Di
Zenzo, che si prodigò nell’aiuto del popolo di Serino durante il
terremoto del 23 Novembre 1980. Padre Floro offrì un notevole contributo
alle prime ricerche archeologiche della Civita e ai susseguenti
parziali restauri delle Mura. Discutemmo di questo in una visita insieme
alle Mura della Civita. Frater et Magister carissime, Ave atque vale.
per fortuna il mondo delle mozzarelle è un mondo serio e non vedremo mai orrori di mozzarelle ibride con 50% di latte di bufala casertana e 50% salernitana con caseificio alla Bocconi
A parte la recente questione degli intrecci di un notissimo marchio locale (“popular” ok, ma sempre marchio locale)
Mi faceva notare un indigeno che lavora nel comparto che contando tutte le bufale d’Italia anche strizzandole si riuscirebbe ad ottenere la quantità di mozzarella “di bufala” che viene annualmente consumata …
Non parliamo poi dei mesi estivi dove localmente l’arrivo dei bagnanti aumenta a dismisura i consumi locali (e le bufale sempre quelle sono)