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sabato 2 gennaio 2010

Tredici racconti di Carmine Senatore

1) Il “Pumpunale”

Era nato il 25 dicembre, non so di quale anno. La leggenda vuole che i nati in questo giorno fossero colpiti da un’antica maledizione: tutti i membri della famiglia avrebbero fatto una triste fine. Si diceva anche che durante i pleniluni, le loro unghie e i loro peli si allungassero, e, presi da ardente frenesia, si arrotolassino nel fango, splamandoselo addosso. Don Ferdinando era un nobile napoletano. Era arrivato in paese in un tempo lontano e senza sapere il perché. Viveva con la sorella, vecchia, piccola e raggomitolata su se stessa.
Continua...
In giro si sussurrava che fosse una maga. La gente, quando passava, faceva il malocchio e i dovuti scongiuri immunizzanti. Pur essendo possidenti, non facevano sfoggio della loro ricchezza. La loro casa era un autentico porcile. L’acqua per loro serviva solo per bere. La loro cultura era inversamente proporzionale al loro tenore di vita. Don Ferdinando si esprimeva in ottimo italiano, ricercato e peregrino. Il suo eloquio, sempre corretto e di maniera, era apprezzato da tutti. Ottimo conoscitore della musica suonava in modo eccelso il mandolino. Ricevere una sua lezione sull’utilizzo dello strumento era un privilegio, che solo ad alcuni toccava. Tra i mobili in stile antico, vi era un vecchio organo, di ottima fattura. Don Ferdinando lo suonava spesso, come preso da un delirio. Il tragitto della sua passeggiata quotidiana era sempre lo stesso. Iniziava dal borgo, laddove vi era la sua casa e terminava in piazza, dove vi era la bottega di Alessandro, un vecchio negoziante non so da dove venuto e da quando: sembra stesse lì da sempre. Nella sua bottega si vendeva di tutto: dal formaggio ai chiodi. Era un vero bazar. Si faceva credito, per la scarsezza di denaro circolante, annotando i debiti su un quaderno nero. Ogni tanto si azzerava o si rinnovava. Consentito anche lo scambio in natura, soprattutto con uova, che erano scambiate con zucchero e sale. Quest’ultimo era preso da una tinozza con un mestolo, sempre umido a causa della sua igroscopicità.
Era lì che don Ferdinando si fermava per fare quattro chiacchiere con Alessandro. La mattina, nei mesi estivi, magnificava i fichi freschi raccolti e mangiati. Quante volte si sentiva dire: “Altro che gelato!”. A mezzogiorno rientrava. Stessa strada, stesso percorso. Controllava il suo vecchio orologio tenuto in uno scatolo, che era stato contenitore di confetti di liquirizia e mentolo di “resoldor”, avvolto da alcune pezzuole tenute insieme da uno spago. L’apertura un vero rito: toglieva lo spago che metteva in tasca, poi apriva le pezzuole una alla volta, l’apertura dello scatolo e infine appariva in tutta la sua magnificenza, l’orologio. Era un orologio molto singolare, in argento, molto simile a quelli che una volta le ferrovie davano ai loro dipendenti. Era avvolto all’interno dello scatolo con pezzi di bambagia. Lo prendeva, lo osservava, gli dava la corda e poi la rimetteva nello scatolo. All’inverso le operazioni per la chiusura. Il pranzo molto modesto e spartano consisteva in una fetta di pane, qualche fico secco, qualche noce e un bicchiere di vino. L’odore di cibi cucinati era assente, mentre netto era il lezzo di sudiciume proveniente dalla sua casa. Nella sua vita vi era un mistero: si sussurrava che avesse una gallina con le uova d’oro, nascosta in qualche posto. Anche i ladri, in più occasioni, vincendo la naturale ripulsa degli olezzi nauseabandi provenienti dalla casa, avevano tentato di entrare nel loro tugurio per impossessarsi della gallina dalle uova d’oro. Tutto era stato vano.
Aveva dei poderi, incolti, dove si trovavano delle sorgenti. Nocciole e ciliegie erano le nostre razzie durante l’estate. Bach e Beethoven erano le sue sonate preferite. Il diletto delle orecchie mal si adattava al puzzo che giungeva al naso dei passanti. Spesso, quando passava lo sciacquio delle sue viscere forzava l’uscita dell’aria liberando mitragliate come fuochi di artificio. Quando si passava davanti alla sua casa, la bocca si rifiutava di respirare, mentre le orecchie si riempivano a dismisura della musica coinvolgente di Bach.
La sorella morì in seguito ad un incendio sviluppatosi durante un inverno, mentre fuori nevicava. Nessuno portò aiuto e non ci volle neanche la bara per seppellirla. Dopo qualche tempo anche Don Ferdinando morì. Fu trovato con la bocca spalancata e con le unghie lunghe, simili ad artigli. Il suo volto aveva un aspetto strano, simile a un lupo ululante in una notte di luna.
Alla sua morte i parenti più prossimi presero possesso dei beni del defunto. ...E la gallina dalle uova d’oro? Un mistero… Qualche tempo dopo si vide uno dei parenti ristrutturare la casa, che divenne la sua dimora, comprarsi un’auto nuova e fare sfoggio di abiti firmati ed eleganti.
Tristezza, mista a dolore: uno dei suoi figli nacque con gravi menomazioni fisiche e psichiche.



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2) Don Gaetano e il caffettiere

Don Gaetano era partito nel 1926 per gli Stati Uniti. Erano anni tristi per il nostro paese.
La crisi conseguenza della guerra aveva stremato il paese. La democrazia attraversava un periodo denso d’incognite. Il nascente e non consolidato regime fascista stava per infliggerle il colpo mortale.
L’unica via di uscita era l’emigrazione e quando il governo degli Stati Uniti aprì la via all’emigrazione, don Gaetano, a malincuore, nonostante le sue proprietà, prese la via dell’emigrazione, lasciando la povera moglie Caterina con quattro figli in balia di se stessa.
Di lì a poco il fascismo avrebbe cambiato la sua politica sull’emigrazione.
Ritornò nel 1950. Nel frattempo aveva maturato l’età per la pensione, con la quale insieme alla rendita delle sue proprietà conduceva un relativo discreto tenore di vita. Per questo la gente del paese gli incominciò a dare il titolo di “don”.
Trascorreva così in un dolce far niente le sue giornate, interrotte solo dalla partita a scopa con il caffettiere, il maestro pasticciere del paese: la pasticceria di tutti i matrimoni del paese era opera sua.
Quando ci si avvicinava, si aveva la strana sensazione di odore di cannella e di chiodi di garofano. I dolci che erano più popolari e che vendeva anche il bar, dove si svolgeva la loro quotidiana partita, erano le castagnole.
L’accanimento tra i due era talmente forte che coinvolgeva tutte le persone attorno. Nubi dense s’incominciarono intanto ad addensare sul mondo occidentale. La guerra di Corea aveva determinato la fase più acuta della Guerra fredda. Temendo lo scoppio di una nuova guerra mondiale tutto il mondo rimase col fiato sospeso soprattutto per l’uso delle bombe atomiche che erano state sperimentate con conseguenze terribili su Hiroshima e Nagasaki. L’invasione della Corea del Sud da parte dell’esercito coreano, determinò una rapida risposta dell’ONU: su mandato ONU, gli Stati Uniti, affiancati da altri 17 paesi, intervennero militarmente nel tentativo di liberare il paese occupato e, eventualmente, rovesciare il governo nordcoreano. In occidente, la guerra fu considerata come una reazione all’espansionismo sovietico e, ideologicamente, come parte di una più ampia lotta fra il mondo libero e il mondo comunista. Naturalmente il caffettiere, comunista qual era, parteggiava per la Corea, mentre Don Gaetano parteggiava per gi Stati Uniti. Don Gaetano e il caffettiere ritennero di risolvere la contesa sul tavolo da gioco. La posta della giocata erano dieci lire, ma quello che era più importante era la vittoria che era classificata a favore dell’una o l’altra contendente. Erano convinti che la guerra si potesse decidere anziché sul campo sul tavolino di gioco. Si svolgeva dopo l’ascolto del comunicato radiofonico sulle notizie della guerra, trasmesso a voce alta dall’unico apparecchio radio del quartiere dal proprietario del bar. Era una partita densa di colpi di scena: una scopa per il caffettiere, il sette d’oro e la primiera per don Gaetano. La possibilità di scopa durante la partita era davvero emozionante, non solo per i due contendenti, ma anche per le persone intorno, che ovviamente parteggiavano per l’uno o per l’altro. La tifoseria assumeva contorni di forte attesa. Il caffettiere prendeva le carte distribuite coperte e le metteva sopra la carta scoperta. Dava due o tre colpetti sulle carte. Le ritirava e le scopriva una alla volta lentamente. La scopa fatta si traduceva in un grido di liberazione da parte dell’una o l’altra tifoseria.
Alla fine tre a uno per il caffettiere: era anche il risultato delle battaglie della guerra.

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3) Anche i cadaveri dei morti per amore puzzano.

Carlo e Lucia abitavano vicino: i loro campi erano adiacenti. Le famiglie si odiavano: era un odio antico determinato da questioni di confine. Non si salutavano e non parlavano mai tra di loro. Il ricordo di quello “sgarbo” era diventato un incubo che si rinnovava giorno dopo giorno.

Pur essendo le uniche abitazioni del territorio, anche quando s’incontravano, fingevano di non vedersi.

Carlo era un giovane bello e forte: aveva occhi azzurri e capelli biondi. Lucia era bellissima: una folta capigliatura nera le copriva la fronte inanellata da due occhi neri e profondi. Era, però, zoppa, a causa di un incidente durante il parto.

Un giorno si ritrovano in un prato, mentre pascolano le loro caprette. Uno sguardo, languido e furtivo, li avvolge. Come? Quando? Avviene. E’ l’amore! Si accorgono presto, però, che quell’amore è impossibile. Le famiglie non avrebbero mai accettato questa loro unione.

I timidi cenni per parlarne con le rispettive famiglie furono accompagnati da urla e minacce: mai e poi mai questo matrimonio si sarebbe fatto. Nonostante l’ostinazione delle famiglie, continuano a vedersi: sguardi furtivi e sempre da lontano.

Un giorno in una grotta, mentre pascolavano le loro caprette, si baciarono appassionatamente. E lì stesi, conobbero per la prima volta l’amore. Le famiglie fecero di tutto per non impedire ai due giovani di vedersi; anzi proibirono loro persino di andare a pascolare.

Una notte d’estate, quando i familiari dormivano, Carlo scavalcò la finestra e andò nel fienile, dove Lucia lo raggiunse. Dopo essersi baciati appassionatamente e giurato eterno amore, si lanciarono nel fiume. E qui furono inghiottiti dalle acque.

Inutili furono le ricerche. Sicuramente non sarebbero mai stati trovati. Era, però, inverno inoltrato e le intense piogge avevano colmato il fiume. Al ritiro delle acque sulla sponda apparirono i due corpi. Un odore nauseabando si sparse attorno. Un contadino avvisò del ritrovamento i carabinieri. Il puzzo dei cadaveri era talmente intenso che bisognava fare uno sforzo per avvicinarsi. Quello che era sembrata una fuga d’amore, aveva trovato il tragico epilogo. Si riaprirono le indagini. Il giudice del circondario più vicino fu chiamato per fare le indagini. L’affidamento di quell’incarico investigativo diede al giudice una certa frenesia. Il pensiero di un’autopsia dei cadaveri lo eccitò. Come fare, considerato che i motivi del suicidio erano evidenti? Decise di fare un sopralluogo nella stanza di Carlo. Qui una volta entrato, non visto, depositò una bottiglietta di veleno che aveva prelevato di nascosto nella farmacia di un suo amico. La bottiglietta fu ritrovata dal maresciallo che lo accompagnava.

Insinuò il sospetto che i due amanti possono essere stati avvelenati e gettati nel fiume.

Ordinò pertanto che fosse fatta l’autopsia, sotto la sua vigilanza, sui due cadaveri per accertare la causa della loro la morte. Fu decisa per il giorno dopo in ospedale l’autopsia, in accordo col medico legale. La notte non riescì a dormire. Una frenesia dei sensi lo assalì: il suo corpo incominciò a ribollire e dolci sensazioni provenienti dal ventre lo avvolsero e lo stordirono. Un sudore caldo lo assalì. Il giorno dopo, eccitato, si recò in ospedale, dove lo attendeva il medico legale.

Mentre il bisturi affondava e lacerava le carni, si sentì preso da un’enorme eccitazione. Sentì all’improvviso, come non gli capitava da qualche tempo, erigersi il pene, mentre una smania lo assaliva e gli offuscava la mente.

Man mano che il medico affondava il bisturi, sentiva sempre eccitarsi. Un orgasmo, che mai aveva provato, lo colse. Era forse un necrofilo?

La tragedia aveva fatto conciliare intanto le famiglie. Dopo quaranta giorni i familiari di stretto lutto con gonne e camicie nere, il padre pensò di far scrivere un’epigrafe sulla tomba dei due amanti che intanto erano stati tumulati nella stessa tomba.

Poiché era analfabeta, si recò dall’intellettuale del paese don Raffaele. Era stato costui maestro elementare e si era laureato in materie letterarie al Magistero. Aveva fama di essere anche poeta Ormai vecchio arrotondava la sua pensione con gli introiti di alcuni possedimenti, dati a mezzadria ad alcuni contadini.

I suoi favori letterari, così per dire, erano retribuiti in natura. Bussò alla porta col maniglione di ferro. Da un foro sopra il battente, si sentì la voce di una delle nipoti di Don Raffaele che chiese cosa volesse. Alla risposta lo fece accomodare, dopo aver ritirato il paniere di fichi freschi.

Lo fece accomodare nello studio. Su un tavolo di legno massello era ammassato di tutto: da vecchi articoli di giornali, carte e pennini per inchiostro, a penne di struzzo. Appena lo vide, lo salutò con ossequi e riverenza, togliendosi il cappello. A sentire la richiesta, lo riprese dicendo che “la scritta sulla tomba” non si dice “scritta“ ma epigrafe o epitaffio.

E lo invitò a ritornare all’indomani. Il giorno dopo, di buon’ora, si recò a ritirare la “scritta”, che don Raffaele gli consegnò, dopo avergliela letta: “Vissero e morirono d’amore”

Nei giorni successivi il rimorso di quello che aveva fatto assalì il giudice. La notte non riusciva a dormire. Si agitava e spesso un sudore freddo lo assaliva. L’unico rimedio era diventare medico legale, per soddisfare i suoi desideri nascosti.

In un primo momento pensò di dimettersi, ma poi ritenne che la sua professione potesse facilitarlo nel conseguire la laurea in medicina. Il ricordo dell’azione compiuta divenne la sua ossessione. Una notte si sentì nell’aria un colpo secco di arma da fuoco. Il suo corpo fu trovato esamine sul letto.



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4) Eros e Thanatos

Carmelo aveva avuto da bambino la poliomelite che l’aveva reso incapace di camminare correttamente. Tale malformazione era associata a un grave ritardo mentale. Il padre, Timoteo, era un giovane alto e magro con una barba nera e incolta, con occhi che sprizzavano allegria e gioia di vivere. La malattia del figlio l’aveva profondamente colpito. Passava da un ospedale all’altro per assicurargli le necessarie cure. Carmelo era un ragazzo con gravi handicap. Si muoveva con difficoltà. Lo sguardo era rivolto verso l’alto e braccia che si contorcevano a ogni movimento. Aveva difficoltà nei movimenti, esprimeva e organizzava le reazioni del corpo in maniera lenta e scoordinata. Debole, per non dire assente il tono muscolare, che rappresenta l’attività primitiva e permanente dei muscoli e adattato ai bisogni della postura e degli atti motori e comportamentali. La sua postura era dinoccolata e incerta, perchè mancanti o per dire assenti i rapporti tra i vari segmenti corporei, inseriti nello spazio. Mancante quasi del tutto la coordinazione motoria; era evidente l’incapacità di compiere con armonia e adeguata misura qualsiasi movimento. Quello, che era peggio, era strano e imprevedibile nel comportamento. Il padre era un falegname, o piuttosto un fabbricante di bare. Solo raramente costruiva qualche mobile. Serviva non solo il paese ma anche quelli vicini. La sua bottega si trovava lontano dal paese, in aperta campagna, dove possedeva anche alcuni ettari di terreno. Passava da un’occupazione all’altra: quando in bottega c’era poco da fare, si dava ai lavori della terra. Spesso Carmelo andava alla bottega e spesso si addormentava in qualche bara. Qualche volta il padre lo portava con sé al cimitero, a funerale avvenuto, a togliere le maniglie, l’unica cosa che era riciclata da una bara all’altra. L’odore dei cipressi, misto a quello di putridume dovuto ai cadaveri in via di decomposizione o a quelli del disseppellimento, gli dava un senso di piacere.

Le bare col morto erano messe nella sala mortuaria su un catafalco e tenute aperte fino il giorno dopo, quando erano chiuse e seppellite.

Quella volta era morta per tifo una giovane zitella. Nella bara aperta vide la donna morta, brutta più che mai, vestita di bianco.

Vedendola distesa nella bara provò un enorme eccitamento sessuale tanto da sentire l’impulso irrefrenabile di saltarvi dentro. L’avrebbe certamente fatto, se non si fosse sentito chiamare dal padre. Il ricordo di quell’eccitamento gli diede nei giorni seguenti un enorme piacere.

Un giorno mentre dormiva in bottega in una delle bare, sentì dei mormorii. Guardò dai buchi delle maniglie e vide il padre intento a fare l’amore con una giovane ragazza. Alla vista di quella scena provò un enorme piacere che lo spinse a masturbarsi. Spesso sognava di aver forti scariche diarroiche e di vedere intorno, soprattutto nella vasca da bagno feci in enormi quantità. Non provava nel sogno nessuna paura e sentiva una forte attrazione per quel che era morto e putrido. Un altro sogno ricorrente era quello di defecare, finché gli escrementi traboccavano dalla tazza del gabinetto, cominciando a riempire la stanza, alzandosi sempre più di livello e di avere la sensazione di affogare.
I viaggi per Roma erano frequenti. Ulderico si alzava presto, preparava il solito pacchetto di soppressate e mozzarelle per lo specialista, prendeva la corriera per Salerno e poi da qui in treno per Roma.
Lo specialista di Roma, da cui si recava spesso, impietosito dei continui viaggi che doveva fare, gli trovò nella capitale un posto di bidello, che cambiò non solo la sua condizione economica ma anche quello del figlio.

Curato in maniera giusta, anche se non riusciva a camminare correttamente, aveva recuperato il ritardo mentale.

Frequentò con profitto il liceo e si laureò in fisica con ottimi voti. Anche i suoi sogni erano cambiati. Spesso sognava di tracciare la figura di una donna nuda, poi tagliarle via braccia, gambe, testa, e di giocare con queste parti del disegno smembrato. Era, in realtà, la soddisfazione, realizzata in modo sicuro e innocuo, di un intenso desiderio di smembramento.

Quando camminava per le vie di Roma, le vetrine della Rinascente lo fissavano quasi volessero rivelarlo a se stesso: un rattrappito manichino con la testa troppo grande e un naso pronunciato.

Camminava, anche se spesso si lasciava andare senza la guida del suo spirito che cercava di mantenere una posizione quanto più naturale possibile al suo corpo. Alla morte del padre ritornò nella casa natale, in campagna, insieme alla madre che ormai assisteva, perché paralizzata.

Aveva avuto un incarico a tempo determinato nel liceo del paese.

La cura della madre e l’insegnamento occupavano tutto il suo tempo. Perciò non aveva tempo di trovare una donna da sposare, considerata anche la sua condizione fisica.

Passava ogni giorno per recarsi a scuola, dopo aver parcheggiato la sua macchina, davanti ad un’impresa di pompe funebri. La titolare era una donna ormai zitella. La vista delle bare esposte, miste a candelabri e fiori secchi, gli recava un forte senso di piacere e di eccitamento.

La mattina passava ben presto e si soffermava a osservare. Rachela, questa era il nome della titolare, pensava a un corteggiamento da parte del giovane, il quale, vistosi corrisposto, se ne innamorò. Spesso entrava: l’odore di fiori e la vista delle bare lo inebriavano. Era questo misto di ghirlande, cuscini, candelabri e catafalchi a spingerlo a entrare piuttosto che la presenza della ragazza.

Il fidanzamento fu breve. I due si sposarono e si recarono in viaggio di nozze.

Al ritorno, con sorpresa di tutti, ci furono lo scioglimento e il ritorno al celibato.

Il divorzio, concesso dalla Sacra Rota in breve tempo, suggellò la loro separazione.

Le congetture dello scioglimento furono le più diverse da parte dei paesani.

Le indiscrezioni si susseguirono: si diceva che durante il viaggio di nozze esigesse che la moglie si vestisse di bianco, la circondasse di candele, finché la cera non la scottasse. A questo punto, si sussurrava, pretendeva fare l’amore.

Tutto collimava. A Canicattì, durante il viaggio di nozze, aveva scelto un albego in vicinanza di un negozio di pompe funebri. Più volte, il direttore dell’albergo aveva visto Carmelo confabulare con il proprietario e visitare il negozio dove erano poste le bare. Un’altra cosa strana: si faceva portare in camera enormi quantità di mazzi di crisantemi.

Dopo la morte della madre, si vedeva spesso, sul far della sera, passeggiare solo in prossimità del cimitero e qualche volta sostarvi seduto su una panchina.







5) Il notaio

Il castello era arroccato in un lato della piazza. Due pilastri, con indicata in marmo la proprietà, immettevano in un ampio piazzale su cui si affacciavano un bar, lo studio di un geometra e quello che era stato il suo studio notarile, ora del figlio Giovanni, anche lui notaio, come lo sarà anche uno dei nipoti. Lateralmente vi era il cinema separato da un lungo corridoio che immetteva in un frantoio. Una sbarra separava lo spiazzo dai garage, dove faceva bella mostra una Balilla, ancora funzionante.

Attraverso un’ampia scalinata si saliva all’ingresso del castello. Due pilastri in arenaria, in alcuni punti erosa dal tempo, facevano da ingresso in un grande cortile, ai lati del quale si trovavano due giardini. Due cancelli di ferro battuto facevano da entrata; all’interno aiuole di rose e di garofani, al centro due ampie e grandi fioriere in granito. In un vasto loggione, dal quale si dominava la piazza del paese, vi erano panchine di arenarie.

Al centro la vasca per la raccolta dell’acqua piovana. Al piano terra vi erano il forno, il bottaio e le stalle, che, durante la guerra, erano servite da ricovero.

Attraverso una scala parte in muratura e parte in terra battuta si giungeva da un lato all’abitazione del fattore, e dall’altro, attraverso una scala in pietra, a quella principale, formata da ampie stanze e saloni.

Dall’alto, dalla terrazza, si dominavano tutto il paese e la vasta pianura.

Era stata la residenza del notabile del paese: Don Ciccio. Da esso, infatti, aveva dominato con la sua autorità tutto il paese. Era stato podestà durante il fascismo e nel dopo guerra era stato nominato dal governo Badoglio commissario del paese. Al ritorno della democrazia fu più volte sindaco, con eccezione del quadriennio che va ael 1952 al 1956. Don Ciccio era stato, per la verità, un vecchio massone liberale. Aveva accettato il fascismo, perchè nel paese poteva esercitare liberamente la sua autorità. Infatti, del fascismo non condivideva né la politica né i metodi. In una tacita convivenza, che poteva anche dirsi acquiescenza, cercava soprattutto di fare la sua politica personale.

Proprietario terriero, aveva aperto negli anni ‘20 una fabbrica di pomodori e un’annessa segheria. Vi lavorava gran parte degli operai, soprattutto giovani ragazze e, nella segheria, i giovani del tempo. Era l’unico opificio del paese. La materia prima (soprattutto pomodori) proveniva dai suoi ampi possedimenti di pianura. Si sussurrava che avesse avuto una relazione con una giovane operaia, dalla quale sarebbe nato anche un figlio. La donna fu subito accasata, prima che desse alla luce il figlio, e data in moglie a un giovane del paese al quale il notaio diede una grossa somma di denaro. Fu proprio questo “figlio della colpa” che troverà come avversario nelle elezioni del 1952. Appoggiato da giovani professionisti, riuscì a sconfiggere il notaio. Pentito, si allontanerà dalla vita amministrativa, lasciando campo libero al padre naturale alla vittoria alle elezioni del 1956.

Era un uomo grande e robusto con una leggera pancetta. Portava baffi e occhiali. Era un accanito fumatore. Spesso si vedeva con un sigaro toscano passeggiare nello spiazzo accompagnato dal maesto Burrone e da Don Amedeo, il medico condotto. Amava soprattutto la caccia che praticava nelle sue ampie tenute. Vi si recava con la sua Balilla insieme al fattore la mattina presto, partendo dalla collina per arrivare in pianura in una delle sue più vaste tenute, attraversata in tutta la sua lunghezza dal fiume. Ritornava intorno alle undici con un ricco carniere. Qualche volta guidava il fattore, che, pur non avendo la patente, era un abile guidatore.

Era anche il notaio del paese. Quasi tutti gli atti di compravendita passavano dalle sue mani. La gran parte dei cittadini riteneva che tale funzione fosse la conseguenza della sua autorità, piuttosto che quella garantita dalla legge. Don Ciccio, infatti, era stato giovane studente di uno dei più rinomati licei napoletani. A Napoli, sede allora di una delle più importanti e prestigiose facoltà di legge del paese, aveva conseguito la laurea in giurisprudenza e poi aveva vinto il concorso da notaio.

La sua vera “longa manus” era il fattore, Martino. Proveniente da una famiglia numerosa, era il primo di una lunga sequenza di fratelli e sorelle. Giovane alto e magro, era e fu una persona molto fedele. La sua venerazione per il notaio era senza limiti. Mai avrebbe abusato dell’autorità concessagli. Si permetteva qualche favore a qualche sorella, cui prestava, durante la vendemmia, l’asino per trasportarel’uva in paese. Era un asino pericolosissimo: scalciava e mordeva. Era soprattutto usato per attingere l’acqua bardato da due grossi barilotti.

Se Martino era il suo prezioso e fedele amministratore, Elena era la sua cuoca. Era lei che preparava i pranzi, cuoceva il pane, facendosi, In questo caso, aiutare dalla moglie del fattore. Aveva capelli rossi, che raccoglieva con un fiocco.

Elena non alloggiava nel castello e la sera si ritirava nella sua casa nel centro storico. La gran parte dei suoi possedimenti era gestita a mezzadria e a colonia parziale. Quando arrivava in paese, dopo la caccia, insieme alla selvaggina, il fattore scaricava anche cassette di ortaggi e soprattutto cocomeri, i più rinomati dell’intero comprensorio. La fedeltà dei suoi coloni si trasformò in ribellione, quando ci furono le elezioni a sindaco del 1952. Non fu eletto per una cinquantina di voti. Le schede annullate riportavano tutti la scritta “acqua e luce”. Era la richiesta, mandata come segnale dei coloni di Cerrocupo. Infatti, mai avrebbero osato fare in modo esplicito una tale richiesta al padrone. Il notaio vi rimase male tanto che smise di andare a caccia in quei suoi possedimenti.

Pensionato, esercitava ancora la professione. La pensione era ritirata ogni mese dal fattore. La somma, £ 104000, grande cifra per i tempi (siamo nei primi anni del 1950) era ritirata direttamente senza delega, tanta era l’autorità del notaio. Il direttore dell’ufficio postale vedeva in Martino lo stesso notaio. La moglie era morta giovane, non prima di avergli dato numerosi figli, una femmina e tanti maschi.

Questi, ormai quasi tutti sposati, trascorrevano le vacanze dal padre. Era rimasto in paese solo il più giovane, Don Vincenzo. Si era sposato e abitava in un lato sul castello, in un’ampia abitazione costruita sopra un vasto edificio, che era stato in passato l’opificio conserviero, e ora adibito parte a frantoio oleario e parte a sala cinematografica. Era stato uno dei primi edifici con solaio in cemento armato del paese. Dopo la guerra era stato trasformato, dividendolo in due parti: quella antistante come sala cinemagrafica, la seconda, quella posteriore, in frantoio oleario, che era raggiunta, attraverso un lungo corridoio, che serviva anche come uscita di sicurezza dal cinema. Dal soffitto, alto una decina di metri, si vedevano le travi in tutta la loro possanza e grandezza. Dalla parte opposta, sempre lateralmente all’ingresso, vi era il botteghino. Un ampio portone al centro nella parte anteriore ne costituiva l’uscita alla fine dello spettacolo. La sala era separata da un enorme palcoscenico dal frantoio. Un grande schermo in fondo al palcoscenico su cui erano proiettati i film del tempo. La cabina di proiezione era in uno degli angoli della sala. Vi si accedeva mediante una scala di ferro e legno. Tutto era nato da un’idea e dalla fantasia alacre di uno dei rampolli di Don Ciccio, finanziatore ovviamente dell’impresa. Sarà proprio don Vincenzo uno degli animatori: dalle compagnie teatrali di avanspettacolo, con balletti e orchestra, alla rappresentazione di film di Totò. Tutto si muoveva all’insegna della novità e del divertimento. Il paese era uscito dalla guerra e aveva voglia di gioire e divertirsi. Non si disdegnavano rappresentazioni di film commoventi e “strappalacrime”. Il tabellone dei film da rappresentare si trovava all’ingresso dello spiazzo, vicino al lato destro di uno dei pilastri. I film interpretati, da Totò, da Rossano Brazzi (“Tosca”, “Noi vivi”….) e Amedeo Nazzari (“La cena delle beffe”, “Catene”) erano i più rappresentati. Alcuni ancora ricordano la prima scena di nudo femminile (un'inquadratura di pochi secondi di Clara Calamari a seno nudo che varrà il divieto ai minori e la condanna delle autorità ecclesiastiche. Ancora tollerato dalle autorità (SIAE) qualche film interpretato da Osvaldo Valenti (“La cena delle beffe” e “Ettore Fieramosca”….), l’attore fascista, repubblichino, che era stato accusato di crimini di guerra, processato in modo sommario e fucilato.
Al botteghino, vi era Martino, il fattore, prestato in quell’occasione a Don Vincenzo, ovviamente in modo gratuito, come parte straordinaria del lavoro svolto normalmente. Nell’inverno del 1956, quasi intuendo la sua fine, Don Ciccio affidò l’incarico a mastro Leopoldo di presentargli un progetto di massima per la costruzione di una cappella al cimitero. Avuto l’incarico, si mise subito all’opera. Nei giorni, se puri freddi, mastro Leopoldo lavorava al cimitero per la costruzione della struttura; quando nevicava, si lavorava in paese in un deposito che il notaio aveva messo a disposizione. Si confezionavano i vari pezzi, che dovevano servire per rivestirla, con un impasto di graniglia e cemento e che erano in seguito levigati con una levigatrice elettrica e lucidati con un a pietra dura e acqua. Se ne andò improvvisamente in una mattina rigida e fredda del 1957. La cappella funeraria era stata da poco finita. Alla sua morte tutti ebbero parti dell’eredità, anche Martino. A quest’ultimo fu concesso di rimanere ad abitare nel Castello per tutta la vita insieme alla sua famiglia.Ora quell’eredità è andata del tutto dispersa. I figli, dopo la sua morte, incominciarono ad alienarla. L’opera è stata completata dai nipoti.Di quello che era stato uno degli uomini più potenti del paese, nulla è rimasto, se non il ricordo di qualche vecchio.

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6) Bettina

Si arrivava al centro storico attraverso due vie: una, più a monte, Via Solimene, e una, più a valle, Via Municipio. S’incrociavano in una piazzetta sulla quale si affacciavano la chiesa di S. Antonino, l’ufficio postale ,il bar di Angelina, e il “sieggio”. Quest’ultimo, detto anche Piazza antico sedile aveva una forma quadrata di circa dieci per dieci metri con due lati aperti e due chiusi da muri delle case adiacenti, coperto, con al centro una fontana alla quale le donne andavano ad attingere l’acqua. L’acqua era portata attraverso una condotta forzata da una sorgente in prossiità della chiesa di Montevergine.Ai due lati aperti, conformati ad arco a tutto sesto, si accedeva alla fontana.Lungo i due lati chiusi dvi erano dei sedili in arenaria, dove un tempo si diceva si tenessero le sedute pubbliche.Via Solimena , dopo la confluenza, continuava ancora. Si arrivava alla piazzetta del capitano e da qui, con una serie di gradinate si raggiungeva la chiesa di S.Biagio. Per le funzioni vespertine si utilizzava per l’ingresso nella chiesa una porticina laterale. Durante le funzioni domenicali, invece,sia priva un cancello di ferro, che immetteva direttamente sul sacrario. Era un ampio piazzale dal quale si vedeva tutta la pianura. La stradina continuava
fino al muraglione, dal quale con una serie di tormati, in ripida pendenza, si arrivava in pianura.Sule due vie principali si affacciavano case in arenaria addossate le une alle altre. Le strade erano pavimentate con ciottoli fluviali, molto pericolosi, quando pioveva o in inverno quando la strada ghiacciava. Vi era una quantità di negozi, dal macellaio, alle cantine, alle botteghe di frutta e verdura, l’immancabile vendita di oro che vendeva anche il tipico cappello del tempo, Il Borsalino. E poi tanti artigiani: dal barbiere al calzolaio e l’immancabile vendita di Sali e tabacchi, con la tipica scritta e con l’aggiunta”Qui si vende il chinino di stato”, ricordo che la malaria, tipica delle aree paludose e malsane, ancora faceva sentire i suoi tristi effetti. A metà strada il municipio. Quattro impiegati (ora sono circa una cinquanatina) soddisfacevano le esigenze di seimila abitanti.Era un pullulare di vita: gente che saliva e scendeva. Si discuteva, si parlava, si salutava, si comprava. In via Solimene non vi erano negozi, ma solo botteghie artigiane. Davano vita i ragazzi delle scuole elementari, che si trovavano quasi a metà strada della via di sopra. Nella piazzetta vi era un vero scorcio di vita. Il vociare era intenso: le donne sedute su barili a mò di sgabello aspettavano il loro turno: discussioni e pettegoilezzi nell’attesa. Una serie di vicoli confluiva nelle due vie, disposti come i raggi di un pettine. Erano neri che non finivanvano mai. In alcuni punti erano stretti talmente che a malapena poteva passare una persona. Il sole vi penetrava raramente, solo in alcune ore del giorno e in alcuni periodi dell’anno. Quanche vaso di rose e di gerani alle finestre conferiva un certo decoro. Le case in gran parte erano senza intonaco. Venivano allo scoperto le arenarie che in alcuni punti, dato il loro alto grado di erodibilità, mostravano il segno dei tempi. Le fondazioni erano appoggiate direttamente sui blocchi arenacei. Una Saint Tropez, ripetuta. E il mare? Non c’era alla fine, ma si vedeva da lontano, all’orizzonte. La vista: una gioia dell’anima! Quando il cielo era pulito, dal muriglione si vedeva la sogoma del’isola di Capri.

La casa di Alessandro si trovava a meta strada, sul lato sinistro,tra la piazzetta, dove si trovavano il “Sieggio” e la” Piazza del capitano” .La casa aveva un portale di marmo e un portoncino di legno di ottima fattura, sul quale faceva mostra un battaglio di ferro lucidato in oro. La casa era intonacata con uno stucco in rosa pompeiano. Si articolava in più piani , alla sommità vi era una terrazza, coperta da un pergolato d’uva. Era un’uva che maturava al finire di novembre, dura e molto dolce,. Alessandro avvolgeva con retine di stoffe molto fini, simili a quelle per mettervi i confetti per le bomboniere, per impedire l’attacco di vespe e calabroni, che se pure rari, per la stagione, attratti dal sapore dell’uva, l’avrebbero sicuramente divorata. Uno spettacolo suggestivo in pieno inverno: Il pergolato senza foglie e con i grappoli stuzzicanti che facevano bella mostra. Dalla terrazza si osservava al di là del vicolo, una serie di case in rovina, colpite e distrutte durante la guerra dai borbardamenti aerei . Il suo negozio vi trovava adiacente all’ufficio postale ed era formata da una serie di stanze una all’interno all’altra. Nella prima si svolgeva la vendita. Era un vero bazar: si vendeva di tutto dai generi alimentari ai cernicchi, alle cazzuole e persino i vetri che erano ritagliati dalle abili mani di Silvio col diamante.

Dopo la morte della moglie, le due figlie,Modesta e Marcella, provvedevano alle cure della casa, mentre i due fratelli, Silvio e Placido, aiutavano il padre nella gestione del negozio. Il negozio aveva anche la vendita di Sali e tabacchi. Placido era piccolo e basso ed era la vera mente del negozio, Silvio, invece, alto e magro , stempiato, provvedeva alla vendita e ai lavori di sistemazione della merce. Il sale occorreva trasportarlo attraverso tutta la via Municipio, dopo che la corriera l’aveva scaricato. Vi provvedeva Giovanni.

Giovanni era un uomo con forza erculea.Sembrava fosse nato vecchio. Portava un cappello militare con visiera che non toglieva mai dalla testa.
Quando si doveva trasportare un carico pesante, era il punto di riferimento.
Era un omone grosso ,che pur movendosi lentamente , riusciva a trasportare sulle spalle carichi impensabili per un essere umano : il trasporto di uno scalone o un sacco di grano era per lui possibile.
Era lui che all’arrivo del postale trasportava il sacco del sale al negozio del centro storico.
Si accontentava di pochi spiccioli.
Amava, però, le medaglie, da quelle di cartone e quelle di latta. Il regalo lo rendeva felice e questo era l’unico momento in cui sorrideva.
Non disdegnava il bicchiere di vino che beveva tutto in un sorso. Quando incontrava qualcuno che gli aveva fatto dono di un amedaglia, gli sorrideva. Salutava con rispetto Arduino, perché una volta gli aveva regalato di una medaglia di cartone con l’effigie del Re Vittorio Emanuele, che aveva trovato in un vecchio baule.
Parlava con difficoltà e spesso era incomprensibile. A volte borbottava tra sè e sé.
La sua casa, un umile tugurio, era piena di santini, croci di latta e medaglie che teneva sparse ovunque. I suoi passi lenti e misurati parevano come se passassero la cera su un pavimento da lucidare. Pretendeva la precedenza da tutti. Se non si lasciava passare, incominciava a imprecare con un linguaggio privo di senso. Sola dal tono si capiva che si trattava di una minaccia.

Mastro Luigi era un falegname rifinito. Sìincominciava ad abbondare la moda di imparare il mestiere di carpentiere, che univa quello di falegname con quello di muratore: troppo diverse erano le competenze. Ora il falegname fabbricava escluisivamente mobili e infissi di ottima fattura. Fu proprio durante il montaggio del portoncino della casa di Alessandro che mastro Luigi s’innamorò di Marcella. Si guardarono, si parlarono, si dichiararono. Alessandro, pur essendo geloso delle figlie, accettò la richiesta in sposa di Marcella. Il padre di Luigi era suo amico e Alessandro ritenne suo dovere consolidare l’amicizia col matrimonio. I tempi furono stretti. Il padre e i suoi fratelli lavoraro alacremente per terminare la costruzione della casa, dove già esisteva la sua bottega.

Il matrimonio fu celebrato. Dopo qualche mese Marcella rimase incinta. Già dai primi tempi la gravidanza si rivelò difficile. Conati continui di vomito , perdite di sangue, inappetenza erano i segni che le cose non procedevano per il verso giusto. Marcella , curata e guidata da Don amedeo, ilmedico del paese,si faceva forza per portare a compimento la gravidanza.Alla fine dell’ottavo mese fu chiamata con urgenza l’ostetrica del paese. Subito le cosea pparirono difficili da gestire e l’osterica volle come assistente Don Amedeo. Nonostante gli sforzi e le cure profuse,Marcella morì. La bambina era salva. Le eccessive perdite di sangue accompagnate da un fisico debilitato la portarono alla morte. Alla neonata fu imposto il nome di Bettina, come la nonna paterna.

Bettina fu affidata alla cura della zia Modesta. Era allattata da una giovane puerpera del vicinato. Giovane e rigogliosa riusciva a produrre latte per due bambini. Guidata amorevolmente dalla zia,Bettina cresceva sana e allegra. Tutti le volevano bene. Teneva la casa allegra ed era la gioia del nonno. Il padre si sposò con una donna di un paese vicino, dove trasferì anche la sua bottega. La moglie aveva con sé anche un fratelo e una sorella non sposati. La famiglia si allargò e fecero parte della sua famiglia anche il cognato e la cognata. Dimenticò la sua bambina, che vedeva raramente e in occasioni speciali, anchè perché nel frattempo era diventato padre di un bel bambino.

La zia le cuciva bei vestiti, le riavviava i capelli che legava con un nastrino. Era un vero splendore di bimba. Le stanze risuonavano della sua voce. Aveva capelli e occhi neri vivi e scintillanti le conferivano una bellezza particolare. L’unico neo, segno di eredità genetica della famiglia paterna: aveva la parte inferiore delle orechie pendule,ancora, però, non bene in evidenza, data la giovane età. Frequentò le scuole elementari con ottimo profitto. Di pomeriggio andava dalle suore per imparare l’arte del ricamo e del tombolo, nel quale diventò abilissima. Dopo aver completato la scuola, Bettina usciva di rado. Cresceva e diventava sempre più bella. Incominciava a farsi donna. I suoi occhi erano pudichi e uno sguardo maschile la faceva arrossire. I suoi lineamenti perfetti,un seno sodo e di giuste proporzioni,un bel sedere che faceva da splendido raccordo col corpo e le gambe affusolate erano da tutti ammirati e desiderati. Lei se compiaceva e ne gioiva.Diventava sempre più donna. La morte del nonno Alessandro la rattristò molto. Si era abituata a lui come a un padre. Il matrimonio della zia con il giovane direttore dell’Ufficio postale, la lasciò sola. Zia Modesta divenne pure lei impiegata dell’ufficio postale, diretta dipendentedel marito.

Ora era Bettina a provvedere ai due fratelli: cucinava, rammentava, puliva la casa e, nei tempi morti, ricamava. Si vedeva spesso alla finestra a osservare le persone che passavano attraverso i vetri. Non usciva quasi più da casa. L’unico tragitto era andare al bottaio che si trovava nel vico immediamentea valle della sua casa, per prendere l’olio o il vino. Chi si fermava era il banditore. Era una persona anziana con un cappello militare. Portava una tromba a mò di corno legata al collo con la quale annuncava il bando: qualche volta era una notizia di vita o di morte, in questo caso usava un campanello, il più delle volte annunciava che era arrivato il venditore di pesce. Suonava la tromba, dopo di che annunciava le qualità e i prezzi del pesce. Portava campioni di essi su un foglio di carta gialla, ruvida e assorbente. Bettina scendeva, osservava la qualità del pesce e poi mandava il messaggio attraverso Giannino, un ragazziono del quartiere, allo zio Silvio che provvedeva all’acquisto.

Spesso,sul far del giorno, ancora a letto, sentiva le urla lancinanti di Salvatore, che, nascosto dietro i muri diroccati delle case danneggiate e non ancora ristrutturate, lanciava. Salvatore,oramai anziano, aveva difficoltà di minzione. Era una mezz’ora di urla e di pianti. Alla fine si calmava e il silenzio ritornava. Era una liberazione per tutti, come se anch’essi fossero soggetti allo stesso calvario.

Spesso passava perandare in paese o per meglio dire alla cantina di Peppe, il masssaro Algaro. Era un pastore che abitava sottoilmuraglione, là dove iniziava la pianura.Tragitto obbligato il suo: muraglione,chiesa di S. Biago, scalinata , piazza del Capitano, via Solimene, Sieggio, e alla fine il traguardo, la cantina. Bettina lo osservava e ascoltava. Portava un bastone e salutava tutti con un verso, o per meglio dire con una terzina,degna dei migliori cantori toscani. I suoi versi si rifacevano a tradizioni e a detti popolari, frutto di una tradizione antica.Anche Bettina, a furia di sentirlo, aveva imparato a memoria qualche terzina.

Chi aveva notato la sua bellezza era Ninuccio,che se n’era segretamente innamorato. Era riuscito a diplomarsi al conservatorio, grazie alla sua ferma e ferrea volontà. Una volta diplomato, volle realizzare quello che era stato sempre il suo sogno : formare una banda comunale.Il paese era diviso in due fazioni, facenti capo a due quartieri. Era ovvio che una volta formata una banda ne nascesse un’altra nell’altro quartiere. Ovviamente gli abitanti delle rispettive fazioni parteggiavano per l’una o l’altra parte.

Ogni abitante si sentiva in diritto di partecipare: fu costruita per i più promettenti una scuola di musica, la partecipazione alle prove dei concerti era un obbligo. La gente del quartiere di Ninuccio partecipava ai concerti della banda “Rossini” (così fu denominata) quasi ogni sera.
Dall’altra parte, nel quartiere nuovo, si rispondeva con le stesse armi. La banda “Verdi” era diretta da Don Raffaele , non diplomato, ma un ottimo conoscitore della musica: l’organista della chiesa del Carmine. Era un tipo burbero , pronto a rimproverare i suoi allievi anche per piccole mancanze.
Ogni banda aveva il suo repertorio. L’una evitava le composizioni di un artista e l’altra quelle dell’altra.
I pezzi forti erano la "Gazza ladra" e "Il Barbiere di Siviglia", mentre “ La traviata” e “ Il Trovatore” quelli dell’altra.
Il padre era Peppe,il cantiniere.La sua attività si svolgeva tra la cantina e il negozio di rame rossa, che lo stesso Peppe costruiva .Le due parti erano separate da una porta, in modo da soddisfare le esigenze della clientela nell’uno o nell’altro posto. Peppe, diventato in questo caso mastro Peppe,lavorava il rame, e in particolare la rame rossa per farne bracieri o pentole.Dedicava tutti i pomeriggi alla bottega, dove costruiva i suoi utensili che poi rivendeva.
Ninuccio la corteggiava. Ogni sera, passava davanti alla casadi Bettina. La guardava e lei rispondeva con uno sguardo fuggitivo. Tutto qui il corteggiamento.Bettina ricavama il corredo, sognando il giorno in cui sarebbe diventata sposa, magari di Ninuccio. Quest’ultimo aveva però anche un’altra relazione, questa più concreta, con una giovane Sofia.

Sofia era una ragazza desiderata da tutti i giovani del paese. Tutti avrebbero fatto l’amore con lei. Aveva occhi e capelli nerissimi con uno sguardo ammaliante e ricco di promesse. Se la faceva, cosa strana per i tempi, con i maschi. Parlava con loro, usando lo stesso linguaggio, e, spesso, si sedeva anche davanti al bar per prendere il caffè. Il padre fabbro spesso la utilizzava durante la placcatura. Con una mazza in mano batteva sul ferro caldo accompagnato dal padre che teneva in una mano il martello e nell’altra in una pinza il ferro incandescente. Era una delizia ascoltare il suono del martello e della mazza, rigidamente e usata con maestria da Sofia. Al momento di girare il ferro, il padre la avvertiva battendo col martello all’estremità destra dell’incudine. Sofia capiva e incominciava a battere all’altra estemità. Continuva per non pendere la cadenza che poi riprendeva , una volta girato il ferro.

Consapevole del proprio fascino sapeva metterlo a frutto condisinvoltura.Non le mancavano i corteggiatori. Tutti usavano qualche stratagemma per intrattenersi con lei. I fratelli cercavano di metterla sull’avviso,ma lei fingeva di non capire. La gioventù e la bellezza la facevano sentire forte. A tutti prometteva e a tutti negava, con una sola eccezione: Ninuccio. Spesso Sofia si recava dalle suore per imparare il taglio e il cucito. La casa delle suore si trovava di fronte alla Bottega di mastro Peppe ,in un angolo lontano da occhi indiscreti . Sofiacon una scusa si allontanava. Ninuccio, dopo essersi impossesato della chiave della bottega del padre, la faceva entrare. Qui nell’oscurità si baciavano, senza arrivarefino in fondo. Sofia ci teneva alla sua verginità.Lo aiutava certamente ad avere l’orgasmo, senza che se ne sentisse coinvolta. A Ninuccio Sofia piaceva, ma non la amava.

Le continue passeggiate, gli sguardi e i sorrisi scambiati erano sicuri indizi che i due giovani si piacevano. Non si erano, però, mai parlato. Bettina lo sognava e lo desiderava. Vedere quel giovane così alto e magro, amante della musica, la riempiva di gioia e anche di fierezza dell’essere oggetto della sua attenzione. Solo una volta si erano sfiorati con una mano, durante la processione della Madonna del Carmine, uscita che si concedeva una volta l’anno. Aveva provato uno strano brivido, che la aveva profondamente turbata. Volentieri si sarebbe concessa, se ne avesse avuta l’opportunità.

Una sera era scesa per andare nel bottaio. Vide salire dalla parte opposta Ninuccio. Si trovarono nel bottaio senza sapere, strettamente avvinghiati. A questo punto Bettina esclamò, implorando: “Prendimi!” Notò l’imbarazzo di Ninuccio e gli disse: “Ti aiuto”. Incominciò a sbottonargli i pantaloni. Ninuccio cercò di piegarsi su se stesso per impedirglielo. Fosse stata Sofia non avrebbe esitato. Fu tutto inutile. Bettina già aveva infilato una mano nello sparato, frugando come se niente fosse. Lo tirò fuori, lo guardo e disse. “Com’è piccolo! Pare spaventato” A poco a poco incominciò ad ingrossarsi. A lui incominciò a piacergli. Lei si tolse le mutandine. Si muoveva dentro di lei fino a farli fremere. Arrivarono all’orgasmo in simultanea. Bettina si risistemò i vestiti e chiuse il bottaio.

Erano i primi di dicembre. Il cielo , se pure nuvoloso,non minacciava pioggia. Bettina prese un cesto per andare a raccogliere l’uva per il pranzo sulla terrazza. Salì sullo sgabello. Un improvviso acquazzone la colse. In un attimo ci furono lampi e tuoni. Un lampo la investì. Si dimenò, sospirò e morì: un arresto cardio-circolatorio la aveva colpito. Non ebbe nemmeno il tempo di chiedere aiuto. Fu trovata così dagli zii, che, preoccupati della sua assenza, erano andati sulla terrazza.

La morta fu ricomposta nella bara vestita,com’era costume, da sposa. Il corpo rivelava ancora i segni della sua bellezza. Le “pie” donne e la zia Modesta vigilarono per tutta la notte, mentre l’odore di cera,di crisantemi e di morte pasticciava l’aria nella stanza. Durante i funerali furono lanciati confetti.Nessuno dei ragazzi osò raccoglierne uno,essi che pure durante i matrimoni si contendevano anche un cannellino.Ninuccio si chiuse nella sua stanza.Suonò e risuonò “L’appasionata“ di Bethevon, finchè il sonno non lo vinse. Nei gioni seguenti divenne triste e si chiuse in se stesso. Non dava più lezioni di musica. Disertò i concerti affidandoli al capobanda.Qualche anno dopo vinse un concorso di direttore di una banda comunale in un paese del nord. Scuola di musica e banda musicale finirono. Com’era da aspettarsi lo scioglimento della banda Rossini porto al rapido declino della “Verdi”, i cui dissidi interni portarono in breve tempo al suo rapido sciogliersi.




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7) Una morte sospetta

Giannino era proprio, come suol dirsi, un bel giovane. Era alto e magro e aveva un portamento altero e fiero. Possedeva un’intelligenza pronta e viva, che ne faceva uno dei migliori studenti del paese. Le ragazze lo guardavano da dietro i vetri delle finestre e se lo contendevano con gli occhi. A lui piaceva e ne godeva. Essere ammirato per un giovane è il segno inequivocabile del suo fascino.

Abitava in una masseria, in campagna. Era figlio di Don Saverio, un ricco possidente, diventato sindaco in seguito alla morte di Don Ciccio, e ora costretto ad andare in paese ogni giorno per la sua carica. Era un uomo alto e possente. Indossava, durante l’inverno, un mantello a ruota, gambali di cuoio, mentre in testa portava un cappello Borsalino, che cambiava una volta all’anno dall’unico venditore del paese. Aveva nel centro storico un modesto appartamento, con lo stretto necessario. Serviva quando si andava a fare la spesa o per ripararsi quando pioveva, molto raramente per dormirvi. Si componeva di due stanze :una, adibita a cucina, al primo piano e una seconda, adibita a stanza da letto. I due piani erano separati da uno scalone di legno. Solo in seguito fu ricavato dalla cucina un salotto e un cucinino. Giannino si era trasferito momentaneamente nella casa di paese, da quando aveva saputo di aver vinto il concorso per commissario. Attendeva la nomina da parte del Ministero e voleva essere il primo a ricevere la notizia ufficiale della vincita e della sede assegnatagli. La posta, infatti, era letta una volta la settimana, quando si andava al paese. Un calesse trainato da un cavallo baio della razza Persano era il suo mezzo di locomozione. Giannino e il padre partivano dalla loro masseria abbastanza presto, dopo aver prepararato la sacca di crusca e carrube per il cavallo. Giannino approfittava allora per andare a fare visita al suo amico Michele, suo sarto e confidente. Qualche volta incontrava due amici Peppe e Manuccio, che erano stati suoi compagni di liceo. Si scambiavano notizie sugli ultimi libri letti e sui fatti, che occupavano la cronaca nera del tempo.

L’arrivo del postino mai fu atteso con tanta ansia.L’ufficio si trovava sul finire della piazza, laddove iniziava la discesa del quartiere “ Franci”. Era stato ricavato da un locale terraneo detto fuori squadro, perché la sua planimetria non aveva alcuna forma geometrica .Infatti non era né un quadrato né un rettangolo. Aveva due grandi portoni: uno che immetteva sulla via principale e l’altra verso un oliveto. In passato era adibito a stalla e in seguito per dormitorio di rom e di zingari.Erano stati ricavati due locali: uno rettangolare più grande per l’Ufficio postale, un altro irregolare per salotto per barbiere.Il direttore, un uomo grande e grosso, con le orecchie a sventola, era l’effettivo padrone dell’ufficio che egli portava avanti insieme alla moglie e un altro impiegato assegnato da poco.Durante lo spoglio della posta l’ufficio rimaneva fino a quando tale incombenza non fosse completata.Il postino aveva una memoria di ferro: ricordava i nomi di tutti quelli che avevano ricevuto una lettera o una raccomandata . Una prima distribuzione avveniva davanti all’ufficio. Guardava tutti gli astanti e assegnavano loro una lettera, un giornale o una raccomandata. Poi iniziava lo smistamento partendo dalle viuzze del centro storico.Finalmente la raccomandata per Giannino. Quando il postino lo vide, esclamò: “E’ arrivata... è arrivata!”. Il postino ormai sapeva tutto, compreso il motivo dell’attesa. Dopo aver firmato e letto l’intestazione Ministero degli Interni, aprì con ansia e trepidazione la raccomandata, cercando di aprirla in maniera giusta senza lacerarla: assegnazione, con incarico di vice-commissario, al quartiere di Primavalle a Roma, dopo aver frequentato il corso di addestramento.

La nomina segnava il coronamento di tutte le sue aspirazioni. Ripensò agli studi fatti che l’avevano impegnato non poco. Si vide giovane studente liceale. L’Italia era appena uscita dalla guerra. Si leccavano le ferite e ancora si contavano i morti. I più fortunati potevano gioire con gli amici all’arrivo delle poche lettere dalla prigionia. Le strade, sterrate, erano dissestate. I mezzi di locomozione erano inesistenti. Solo qualche anno dopo, camion adattati, vecchi Chevrolet, incominciarono a percorrere le strade per raggiungere il capoluogo. La mattina si alzava presto e raggiungeva con la bicicletta il liceo insieme a due compagni, che scendevano dal paese. Dopo una ventina di chilometri si raggiungeva la scuola. Analogo era il percorso per ritorno. Quando il tempo era inclemente, utilizzava il calesse del padre. In questo caso dava il passaggio anche ai due suoi amici. I genitori erano preoccupati per il ritorno a casa. Qui studio “matto e disperatissimo”. Ripensò ai suoi primi amori con la compagna di classe, ormai diventata moglie di un giovane medico, dopo aver interrotto gli studi universitari. Rivisse anche i momenti di divertimento insieme ai suoi compagni. … e poi ricordò il volantino ciclostilato direttamente dagli studenti che riportava i discorsi domenicali di “Fonzo a patana”, una persona non più giovane candidata alle elezioni politiche del 1948 con il movimento “Trinacria”. Sulla testa “Fonzo”aveva un bitorzolo, da qui il suo nome. I suoi comizi, sempre affollatissimi, erano continue interlocuzioni e con il pubblico. Un ricordo, lo faceva ancora ridere, quando “Fonzo”, parlando del costo della vita, chiese: “Sapete quanto costano i generi alimentari?”. Il pubblico: “No, sappiamo solo quanto costano le “patane “....e lui, di rimando : “A patana e sorita”. Ilarità e risate crescevano, rafforzate da interruzioni, papere e sfoglio di un rotolino di carta, sul quale teneva annotate parole poco usate, che inseriva nel discorso, pensando di stupire, in modo casuale, senza avere nessuna relazione col discorso.

Le fatiche giornaliere per raggiungere la scuola erano compensate da una vita familiare calma e serena. La madre, Donna Luigia, dopo aver conseguito il diploma di maestra, aveva sposato, appena diciottenne, Don Saverio. Donna molto sensibile, aveva per il figlio una vera venerazione. Da piccolo gli raccontava le favole di Andersen e dei fratelli Grimm, più tardi “Le memorie di un italiano” di Ippolito Nievo e i romanzi storici del tardo romanticismo. Giannino la ascoltava incantato. La sua voce, calda e suadente, ricca d’inflessioni, lo stupiva e lo rassicurava. La mattina, prima che partisse per la scuola, gli preparava lo zabaione con due uova fresche, che andava a prendere direttamente, sul far dell’alba, nel pollaio, con marsala.La licenza liceale fu conseguita con ottimi voti. Due otto in latino e in greco facevano bella mostra sul diploma. Frequentò l’università a Napoli, dove conseguì la laurea in giurisprudenza. Poi la vincita del concorso per commissario e ora la nomina. Poteva non essere orgoglioso e fiero dei traguardi raggiunti?

Il giorno della partenza arrivò. Si alzò presto. La madre lo abbracciò piangendo, stringendolo forte a sé e raccomandandogli di stare molto attento e di usare soprattutto prudenza. Aveva letto sui giornali che la capitale era piena di ladri e malviventi. Non sarebbe andato lì per esercitare la sua funzione? La commozione tra madre e figlio fu interrotta da Don Saverio. Il calesse era pronto e bisogna fare presto. Di lì a un’ora sarebbe arrivato il treno. Lo accompagnò alla stazione più vicina. Si abbracciarono e una lacrima scese sul viso del padre. Il sentimento paterno prese il sopravvento sulla rudezza del suo caratttere, abituato, com’era, a celare emozioni e sentimenti. Fu mandato per l’addestramento alla scuola di Nettuno. Esercitazioni fisiche e lezioni toeriche in aula lo tennero occupato per circa sei mesi. Uso delle armi, ricoscimento di droghe e di monete false furono il suo “pane quatidiano”. Accanto a questa preparazione generale uguale per tutti, si aggiunse uno studio particolare sociologico-criminale sul quartiere nel quale avrebbe esplicata la sua funzione. L’armonia e la bellezza fisica lo resero più affascinante. Scendeva una volta al mese, per il wek end, a casa. La caccia era il suo sport preferito. Dopo aver indossato stivaloni, calzoni alla zuava, giacca al vento, e cappello andava a caccia lungo il fiume. La sua abilità nel maneggiare il fucile rappresentava per beccacce e guaglie morte certa. La sera con la sua millecento nuova e fiammante, regalatagli dal padre, andava a trovare il suo sarto Michele, al quale confidava segreti e speranze. A Nettuno aveva conosciuto Maria, una traduttrice. La relazione finì presto perché Maria non era la donna che Giannino immaginava. Da una serie di particolari riferitigli confusamente da un collega, gli sembrava che lei avesse svelato il fondo egoistico del suo animo. Anche il suo presunto angelismo e i suoi ragionamenti sembravano tutti studiati con calcolo, non meno del comportamento. Se ne allontanò e fece bene, perché dopo poco fu arrestata per spaccio e detenzione di droga. L’addestramento finì e Giannino prese possesso del suo ufficio nel quartiere di Primavalle, uno dei quartieri più difficili della capitale. Contrabbando di sigarette, spaccio di droghe, furti, istigazione alla prostituzione erano i reati più frequenti. Durante una festa aveva conosciuto Donna Elisa, una donna della media borghesia romana. Dopo la morte del marito, un alto funzionario del Ministero dei lavori pubblici, era rimasta sola, non avendo figli. Aveva saputo che il commissario cercava un alloggio. Gli offrì una stanza nel suo appartamento, non tanto per il denaro, quanto per la sicurezza. Quale ladro, infatti, poteva avventurarsi in una casa nella quale vi era un commissario? La casa si trovava nel centro di Via Veneto, in uno delle vie allora più frequentate da attori e artisti. La casa arredata in mobili in stile antico, presentava un immenso salone con lampadari in vetro di Murano. Un enorme tavolo intarsiato, di pregevole fattura, con molte sedie, era il segno di una vita di società nel passato molto intensa. Su una delle pareti vi era un enorme orologio a pendolo. Lo studio, poi, un vero museo. Alto quanto due piani, presentava vetrine piene di minerali e di cimeli. I libri, moltissimi, erano divisi in sezioni. Una sezione era dedicata agli studi e agli interessi professionali del marito: erano libri d’ingegneria che andavano da Terzaghi-Peck a Tesoriere. Dallo studio, attraverso una scala di legno, accedeva alla sua stanza. Qui aveva portato i suoi libri e i suoi vestiti. Portava la biancheria sporca a una lavanderia non molto lontana. Pranzava e cenava al commissariato. Qualche volta Donna Elisa lo invitava a cena. Allora lei mostrava la sua abilità, veramente notevole, di cuoca. Apparecchiava la tavola utilizzando le sue porcellane più fini e le posate d’argento. Gli aveva permesso anche di utilizzare lo studio del marito. Quando faceva il turno di notte, si alzava presto. Andava in cucina e si preparava il caffè. Spesso nella sua camera smontava e puliva la sua pistola di ordinanza, che poi poneva in un cassetto, che chiudeva a chiave. Donna Elisa aveva un nipote, Egidio, figlio di sua sorella Emma, che abitava a Viterbo. Studente fuori corso di scienze politiche, in sei anni aveva superato solo quattro esami, tutti con dicotto. La zia più volte gli aveva offerto ospitalità. Aveva, però, sempre rifiutato, perché amava la vita libera e non tollerava di essere controllato. Aveva le chiavi di casa: poteva entrare e uscire quando voleva. Frequenteva la borghesia romana ed era amico del giudice D’Alessandro. Si sussurrava che quest’ultimo fosse diventato giudice in seguito alla raccomandazione di un alto boss mafioso. Le rare volte in cui andava a trovare la zia, faceva visita anche al commissario che lo accoglieva nella sua stanza. La sua pistola ne aveva suscitata la curiosità. Osservava il modo col quale toglieva i proiettili dall’arma, il modo con quale la puliva, l’uso del sileziatore, la maniera si utilizzare l’arma senza lasciare tracce, il luogo dove la deponeva. Durante una cena offerta da Donna Elisa, era presente anche il nipote. Pur essendo Giannino astemio, quella sera aveva bevuto qualche bicchiere di vino e in preda all’euforia raccontò di un’operazione di pulizia, che si stava preparando, che avrebbe sgominato una banda di spacciatori di droga e d’istigatori alla prostituzione. Incautamente e senza rendersene conto fece anche il nome del luogo, dove ci sarebbe stata l’operazione di polizia. L’operazione, che pure era stata preparata con cura, fallì miseramente. Il luogo era deserto e non si trovò nessuna traccia né di delinquenti nè malfattori. Una sera era tornato molto stanco dal lavoro. La mattina si alzò tardi e andò in cucina a prepararsi un caffè. Cercando la zuccheriera, notò che era piena di una polverina bianca. Subito la riconobbe. Chi poteva averla messa? Decise di indagare. Qualche giorno ritornò in cucina e con sua sorpresa la droga era sparita. Al suo posto un rotolo di centomila lire. Non poteva essere, ne era certo, opera di Donna Elisa, perché ,quando le pagava la pigione a fine mese, lei metteva il denaro in una cassaforte che teneva nello studio.

Aveva ordinato a uno degli agenti di seguire, in borghese, i movimenti di Egidio e di prenderne nota. Entrava e usciva dalla villa del giudice D’Alessandro a suo piacimento, mentre altri erano fermati dal custode. Entravano solo dopo che il custode aveva ricevuto, via citofono, il consenso del giudice. Con un binocolo l’agente aveva potuto notare le confubalazioni, spesso eccitate, di Egidio col giudice. Portava spesso con sé una borsa di pelle e ne usciva senza.

Una sera Egidio, col consenso della zia aveva invitato a cena il giudice. Donna Lisa aveva esteso l’invito anche a Giannino. Accettò non tanto per conoscere il giudice, quanto perchè convinto dalle insistenze, non di maniera, di Donna Elisa. Fu durante la cena che Donna Elisa diede il meglio di sé come padrona di casa e come cuoca. Fu una cena squisita e da ricordare. All’arrivo Egidio presentò alla zia e a Giannino il giudice, che dimostrò di conoscere stranamente molto bene la personalità del commissario. Durante le conversazioni notò che conosceva anche informazioni riservate su indagini in corso del commissario. Come mai sapeva? Esisteva forse una “talpa” nel suo ufficio?

Un giorno il commissario avvisò Donna Elisa che il giorno dopo non sarebbe rientrato, poiché doveva recarsi in una città del Nord. Al ritorno, Donna Elisa notò che aveva una grossa busta con sé. Si ritirò nella sua stanza, senza neanche sfogliare i giornali, com’era solito fare. Nei giorni seguenti apparve nervoso e distratto. Il suo umore fu notato dalla padrona di casa. Le premure, mostrate nei suoi riguardi, furono vane. La sera rientrava e si ritirava in camera. Non toglieva i proiettili dalla pistola e la deponeva nel casseto senza chiuderlo. La mattina, ben presto, si recava in Ufficio e vi rimaneva fino a ora tarda. Sembrava un atteggiamento volutamente studiato per evitare di incontrare durante il rientro in casa Donna Elisa. Forse temeva che potesse chiedergli qualcosa del suo strano e inusitato comportamento. Un giorno Dona Elisa, non vista, incuriosita, andò nella stanza del commissario. Sapeva di fare qualcosa d’indiscreto. Non aveva più osato entrarvi, da quando, era stata occupata dal giovane. Aveva invece accesso una giovane donna, che provvedeva alle pulizie settimanali. Furtivamente aprì uno dei cassetti e notò una grossa busta, che aveva visto già nelle mani del commissario, la incuriosì. La aprì: era una lastra fotografica, una di quelle usate per le radiografie. Era forse ammalato? Una mattina, era il giorno delle pulizie settimanali, la giovane inserviente, entrò nella stanza. Un urlo!... Il commissario giaceva esamine vicino alla scrivinia con una pistola in mano, con un’ampia ferita alla testa. Alle grida dell’inserviente accorse Donna Elisa. La vista del commissario, steso a terra e privo di vita, gli fece emettere un grido di dolore. Stava quasi per svenire, se non fosse stato per l’inserviente che la sorresse. Che cosa occorreva fare in quei frangenti? Si ricordò del giudice D’Alessando, lo chiamò per telefono e, cosa strana, arrivò quasi subito. Fu lui che, dopo aver appurato la morte del commissario , chiamò la polizia, non senza prima aver interrogato Donna Elisa.

Raccontò che la sera prima, stava per mettersi a letto, quando sentì qualcuno infilare la chiave nella toppa della porta e di aver udito, dopo qualche decina di minuti, un tonfo. Non aveva dato molto importanza alla cosa, perché la sua fedele micia spesso ne combinava una delle sue. La polizia accertò il decesso. Il giudice D’Alessandro stese il vebale, riferendo le parole di Donna Elisa sul tonfo, ma non scrisse nulla del rumore che lei aveva udito all’apertura della porta. In un primo tempo si pensò a un incidente nel pulire la pistola. Molto probabilmente era rimasto un colpo in canna. Il ritrovo della busta con la radiografia, dalla quale si rilevava la presenza di una massa tumorale nel cervello del commissario, fece cambiare opinione al giudice che, da incidente, fece passare la morte, per suicidio.

Alcuni anni dopo, il giudice antimafia D’Alessandro fu indagato dalla Procura di Reggio Calabria per falsa testimonianza e favoreggiamento del boss Giuseppe Sgallotti, con l’aggravante mafiosa, per la testimonianza resa alla Corte d’assise d’Appello di Roma, durante il processo contro le cosche napoletane. Olindo Capobianco, sostituto procuratore di Roma, in una lettera aveva espresso perplessità sull’innocenza di Giuseppe Sgallotti. In seguito, chiamato a deporre proprio in quel dibattimento, aveva manifestato, ritenendole, però, “sue convinzioni personali legate agli atti e agli accadimenti successivi al processo”, molte perplessità sull’innocenza di Sgallotti, al quale nel frattempo era stato addebitato anche l’omicidio, avvenuto qualche tempo addietro, del commissario di Primavalle.

Forse ne avrebbe saputo di più l’amico Michele. Ma le confidenze non sono fatti.



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8) Una vita intensa senza miti e senza illusioni

Ulderico era un giovane alto e magro con baffi e pizzetto, con occhi che ipnotizzavo al solo guardarli. Il suo portamento altero gli conferiva un aspetto regale.

Era un giovane meccanico, o piuttosto un fabbro che sapeva dare armonia e bellezza a un pezzo informe di metallo. Sapeva lavorare i metalli e avendo una buona conoscenza di chimica, riusciva con stupenda maestria a fonderli e formare nuove leghe. Non disdegnava né la scultura né la pittura.Aveva acquisito queste abilità e conoscenze in carcere da un compagno di cella, dopo aver scontato una lieve pena per contrabbando. I tempi erano particolarmente difficili, perche accanto al contrabbando si sviluppò la delinquenza e con essa i soprusi, i latrocini e gli omicidi.
Non c'era un'autorità capace di fare rispettare la legge. Prima che facesse buio, era conveniente andare a casa perche si correva il rischio di essere derubati o accoltellati da chi si metteva "o passu" cioè si appostavano in punti strategici per rapinare i passanti. Difatti molte persone prese dalla paura o perchè avevano intenzione di commettere atti criminosi camminavano armate di pistole, coltelli o altre armi. I cittadini benestanti avevano paura di essere sequestrati. Di mattino, spesso, correva in giro la notizia di qualcuno ammazzato. Molti delinquenti si davano alla latitanza e facevano rapine. Per i giovani restavano: il brigantaggio e l’emigrazione. Ulderico preferì quest’ultima soluzione. La seconda fase della storia dell'emigrazione italiana incominciò con i primi anni del Novecento e fu caratterizzata da due novità: per quel che riguarda le aree di partenza, acquistarono un'importanza crescente le regioni meridionali e soprattutto la Sicilia; per quel che concerne le aree di destinazione, gli Stati Uniti diventarono l'unica meta di tutti gli emigranti italiani. Infatti, i costi delle navi per l'America erano inferiori a quelli dei treni per il Nord dell’Europa, per questo milioni di persone scelsero di attraversare l'Oceano.Questo esodo di massa (8 milioni tra il 1900 e il 1914) ebbe dei costi umani elevatissimi, perché significò il disperato sradicamento dalla propria terra e perdita d‘identità in Paesi stranieri, dove irapporti umani erano difficili e bisognava spesso accontentarsi di lavori umilianti, faticosi e mal pagati. L'arrivo in America era caratterizzato, inoltre, dal trauma dei controlli medici e amministrativi durissimi, specialmente a Ellis Island, l'Isola delle Lacrime. Sull’elenco d’imbarco, che era consegnato all’autorità di Ellis Island all’arrivo, erano descritti nome, cognome, mestiere, somma, assai modesta, in dollari posseduta e il residente chiamante che doveva garantirgli, almeno nei primi tempi, vitto e alloggio.

Ulderico era rimasto fuori dai flussi programmati di emigrazione per gli Stati Uniti insieme a un giovane amico Carmine. Questi era un carpentiere che metteva insieme il mestiere di muratore con quello di falegname.Sul molo di Napoli avevano conosciuto Dudu, un uomo dedito a traffici illeciti e all’immigrazione clandestina. Chiunque volesse emigrare in modo irregolare gli si rivolgeva. Tutti i risparmi dei due giovani erano stati investiti in quest’avventura. Imbarcato nottetempo sulla nave, gli fu trovato come posto uno sgabuzzino in prossimità della cabina del capitano. Un cameriere, complice della tresca di Dudu, sul far della sera gli portava il cibo e l’acqua che doveva servire anche per il giorno successivo, dopo, con un segnale preconcordato, essersi fatto aprire dall’interno. Un’apertura, che portava direttamente a mare, serviva per i suoi servizi igienici. Era riuscito con un coltellino a scavare nella parete un buco. Di lì si vedeva la cabina del capitano. Carte nautiche, cannocchiali, un sestante, un mappamondo e alcune carte geografiche completavano l’arredamento. Immancabile una vetrina con numerose pipe di cui il capitano faceva bella mostra con i naviganti di prima classe e un’altra piena di liquori e di coloniali. Lo osservava seduto sulla sua poltrona a dondolo, nelle pause di riposo, fumare la sua pipa e bere un bicchiere di cognac. Era un uomo rude e burbero con i marinai, ma affettato e ossequioso con gli ospiti più facoltosi. Una volta Ulderico era riuscito a entrare nella sua cabina e si era impossessato di un rasoio. Sarà l’unico oggetto che lo accompagnerà fino alla fine dei suoi giorni. Tra il timore di essere scoperto, l’ansia del viaggio che sembrava inteminabile e la solitudine attendeva la fine della traversata, sopportò con pazienza e rassegnazione il tempo, ben sapendo che altre incognite ci sarebbero state, una volta sbarcato. Finalmente il simbolo, la Statua della Libertà, si vide da lontano. Il suono acuto e prolungato delle sirene della nave era il segno dell’arrivo. Anche lui si preparò a scendere. Confuso insieme alle numerose persone discese facilmente dalla nave. L’enorme confusione, le incertezze degli sbarcati che non sapevano dove andare e che cosa fare, i richiami degli ospitanti, lo confusero e Ulderico si sentì solo e smarrito. Il peggio doveva ancora venire: dove sarebbe andato? che cosa avrebbe fatto? Stava rimuginando questi pensieri, quando sentì un cigolio stridente. Si trovò a terra col volto sanguinante. Una carrozza l’aveva l’investito. Da essa discese un uomo non molto alto, con un paio di occhiali, con un abito scuro da cui scorgeva un elegante panciotto. Lo fece accomodare sulla carrozza, e col viso preoccupato e commosso gli chiese, dopo avergli asciugato il volto, come si sentisse. Dopo essersi assicurato, gli chiese da dove venisse e dove andasse. Le domande accorate e la sua voce suadente e calda convinsero Ulderico a dire tutta la verità. Man mano che raccontava, notava sul viso di Don Antonio (questo era il nome dell’investitore) il piacere e la commozione delle sue avventure. Aveva deciso: l’avrebbe portato a casa sua e gli avrebbe dato alloggio. Don Giovanni era sposato con Donna Elisa. Non avevano avuto figli e l’arrivo di Ulderico nella loro casa fu accolto come un figlio mandato dal cielo. L’intelligenza e la laboriosità di Ulderico erano per loro motivo di orgoglio. Ormai maturi negli anni, prima la moglie e poi il marito lo lasciarono solo. Don Antonio l’aveva nominato erede universale dei suoi beni. Rimase ancora qualche anno a curare i suoi interessi. Sentì irrefrenabile il desiderio di ritornare al suo paese. Dopo aver venduto i propri beni e aver accumulato una bella somma s’imbarcò per l’Italia. A Napoli una carrozzella l’avrebbe portato a Salerno e da qui al suo paese.

Comprò un pezzo di terra sul quale costruì la sua casa e un mulino. Adiacente a essa la sua officina. La casa confinava con quella di Egidio, un simpatizzante anarchico. Abitava al primo piano, mentre al pian terreno vi era una chiesetta, non più grande di 30 mq. La chiesa se pure modesta, conteneva la statua di S. Antonino, che secondo la leggenda dei paesani aveva compiuto qualche miracolo, però di cui erano scomparsi il fatto e la memoria. La statua era portata in processione per le vie del paese il 17 gennaio e poi messa su un catafalco ad assistere ai fuochi, un enorme catasta fatti di fascine alla quale si dava fuoco. Ardeva per tutta la notte e alla fine la statua era riportata nella chiesetta. Era stata costruita dai suoi avi e consacrata. Egidio aveva bisogno di un luogo nel quale mettere le sue attrezzature rudimentali per le proiezioni. Più volte aveva invitato i suoi compaesani a portare la statua altrove. Questi si erano sempre opposi, ritenendola ormai patrimonio della collettività. Infastidito dei ritardi, una sera prese la statua e la portò sotto un olivo. Durante la notte, non visto, murò l’apertura impedendone l’accesso. Di fronte a tanta risolutezza i paesani si convinsero e portarono la statua nella chiesa di S. Antonio, non molto distante. Pur non essendo ben visto dalla collettività, essi, però accorrevano in massa quando Egidio proiettava in piazza le sue diaposite e suoi rudimentali cortometraggi. La preparazione era un rito: due pali erano innalzati e tra di essi era messo un lenzuolo preventivamente bagnato per stenderlo meglio. Su un rudimentale treppiede era messa la sua lampada magica. I ragazzi prendevano posto su un sasso di arenaria. Sul fare della sera, al comparire del buio, iniziava la proiezione che terminava con fischi e applausi. Inutile raccontarecome si presentava la piazza a fine proiezione, piena di sassi, di grandezza e spessore variabili, confusamente disposti. Egidio era diventato amico di ulderico, anche perché gli aveva offeto numerosi consigli per migliorare la sua lampada magica.

Suo grande amico e confidente era anche il cavalier Maffei. La sua era l’unica casa ben costruita con i solai in cemento e le mattonelle in graniglia. Possedeva molti ettari di terreno. Erano di scarso pregio agricolo perchè costituiti da calcari marnosi con una ricca percentuale di scheletro e con scarsi elementi nutritivi, dati in gran parte a mezzadria.

Aveva un gran pancione, che unito alla bassa statura, ne arrotondava ancor più la fisonomia. Si recava spesso in campagna col suo asinello dai suoi coloni per ritornare sul far della sera con un paio di fascine che i suoi mezzadri vi avevano caricato. Portava stringendoli sulla barda un paniere di frutta di stagione.

Qui ritrovò anche un non più giovane anch’egli emigrato negli Stati uniti, Gaetano. Era stato un emigrato della prima ora. Orami pensionato, se la godeva. Accanto alla pensione possedeva alcuni ettari di terreno che gli conferivano una certa tranquillità economina. Alto e magro, si accompagnava con un bastone leggero. Si diceva che fosse molto vicino ai vertici del potere fascista, amico molto potente di qualche gerarca. Per questo era molto temuto dai paesani, che si guardavano bene nel fare affermazioni contro il nascente, e già potente, fascismo. Intanto don Ulderico aveva messo gli occhiali: il continuo contatto con le fiamme acceccanti della fusione dei metalli ne avevano compromesso in parte la vista. Se li era costruito da sé: una vera e originale opera di alta meccanica. Credo che il modello fosse originale e unico.

Si vedevano ogni sera per la consueta partita a tresette alla cantina Di Peppe. La loro partita un rito: da una parte Ulderico e Gaetano, dall’altra Egidio e il cavaliere. Il silenzio dominava durante tutta la partita, alla fine imprecazioni per le carte mal giocate. Terminava con l’immancabile bevuta da parte dei vincitori, alla quale dovevano essere presenti, in segno di dispregio e di dileggio, gli sconfitti. La vincita era un bicchiere di marsaletto o di moscato.

Tutto procedeva con la solita routine.

Era, però, Ulderico, un giovane gaudente che amava la bella vita e non disdegnava la compagnia delle belle donne.

Poiché conosceva bene l’arte di fondere i metalli e di farne nuove leghe, grazie anche al suggerimento di un amico, esperto orafo, che aveva conosciuto negli Stati Uniti e che ora lavorava alla Zecca di Stato, decise di costruire una zecca clandestina.

Le monete erano talmente perfette che era difficile distinguerle da quelle autentiche.

Il cavalier Maffei possedeva nella sua tenuta un vecchio casale. Era qui che si svolgevano al lume di acetilene banchetti che spesso si trasformavano in vere e proprie orge alle quali partecipavano alcune giovani allegre e di facili costumi dei paesi vicini.

Queste baldorie durarono per parecchio tempo fino a quando una delle donne avvisò i gendarmi.

Ulderico insieme a suoi amici fu processato, e, poiché non si erano macchiati del crimine di spaccio di monete false, le pene furono irrisorie e dopo alcuni furono rimessi in libertà, grazie anche agli sconti di pena chiesti, su suggerimento di Gaetano, in suo favore.

Durante la guerra fu sempre il suo mulino a disposizione dei contadini per molire il grano illegalmente sottratto all’ammasso. Nottetempo, nascondendo il rumore del mulino con il suono della sua incudine, permetteva ai villegiani la “sacrilega” operazione.

La guerra finì e tutto ritornò come prima. La popolazione, uscita dal disastro della guerra che aveva apportato lutti e distruzioni, aveva bisogno di ritornare alla vita e tornare a sorridere. Anche questa volta Ulderico non si tirò indietro e insieme a alcuni amici, tra i quali Menotti e Biasino, diede inizio alle carnevalate. Regista, costumista e protagonista le carnevalate erano vere e proprie pantomime con una sceneggiatura precisa, ordinata e finalizzata. Il vino, durante le feste, la faceva da padrone. Le rappresentazioni venivano anunciate durante la settimana da Biasino con un tamburro. Il suo volto clownesco era reso più brillo dal vino, che gli era offerto durante il suo passaggio.

Le avventure nel suo non breve percorso della vita non finirono qui. Nel 1956 due liste, Stella e Orologio, si contendevano l’elezione a sindaco. Poteva mancare la lista di Ulderico? Il nome della lista, naturalmente, “Il mulino”. Con una lista incompleta e fatta di quattro poveri cristi reclutati tra i poveri del paese, si presentò alle elezioni. I suoi comizi: un delirio. Con un linguaggio tra il serio e il faceto, fatto di motti di spirito e di proverbi, abilmente suggeriti da un suo elettore, il massaro Algaro, prometteva festini e belle donne. Ovviamente sconfitta scontata.

Ritornò a curare il suo mulino, che aveva affidato a un giovane, molto abile a destreggiarsi tra filtri e farine. Le sue passeggiate sempre con Egidio si svolgevano sul far della sera. Aveva incominciato a leggere le profezie di Nostradamus. Più volte si sentì esclamare le parole della Bibbia (in Deuteronomio 4:19): “Quando alzate gli occhi e vedete il sole, la luna e le stelle, come schiere ordinate nei cieli, non dovete cedere alla tentazione di inginocchiarvi e di venerare quelle cose: il Signore, vostro Dio, le ha lasciate adorare a tutti gli altri popoli della terra.” In Deuteronomio 17:2-3, fa “quel che dispiace al Signore” chi “rende culto ad altri dèi e s’inginocchia davanti a loro, davanti al sole, alla luna o alle stelle”.

Divenne enigmatico e sfuggente. In paese si suggeriva che era dedito a sedute spiritiche, durante le quali si sussurava invocasse Satana. Morì in un giorno in cui imperversava una vera e propria tempesta. Tuoni e lampi riempivano l’aria. Pare che qualcuno, al momento del trapasso, avesse udito un suono lento e cupo di campane.

Alcuni anni dopo, aperta la bara per l’esumazione del cadavere, il becchino fu costretto a chiuderla, perché il suo corpo era rimasto perfettamente intatto. Il becchino raccontò, con un senso malcelato di paura, che i suoi occhi sembravano fossero rimasti aperti ed emassero una strana luce.



9) Via Del Giglio 43

“Arduino, Beniamino, dove siete? E’ mai possibile che non vi si possa mai lasciare soli?”. Il tono imperioso, misto di rimprovero e di preoccupazione, della mamma di Beniamino li aveva richiamati alla realtà. Erano andati alla chetichella sulla colombaia, o per meglio dire sulla soffitta, nella quale attraverso feritoie entravano dei colombi. “Mamma siamo qui!Ora scendiamo!”disse Beniamino. Erano andati in colombaia a compiere la loro vendetta. Per loro i colombi rappresentavano i soldati austriaci. Con un martello, al grido di “W l’Italia”, avevano azzoppato due colombi, per vendicare l’amputazione di una gamba a zio Carmine e di un piede a zio Virgilio in seguito al ferimento da parte dei soldati austriaci. A pranzo, Beniamino aveva gustato i due colombi. La madre li aveva scoperti con una zampa mancante e aveva deciso di cucinarli. Erano giunte notizie dall’ospedale del fronte di questa triste vicenda. Zio Carmine e zio Virgilio non avrebbero mai più camminato, sorreggendosi su due gambe: avrebbero portato, per tutta la vita, i segni di questa grave menomazione. Il primo avrebbe portato una protesi di legno e si sarebbe appoggiato a un bastone; Il secondo, zio Virglio, anch’egli una protesi di legno, si sarebbe retto con una gruccia. La guerra era finita. Il padre di Beniamino e quello di Arduino ritornarono indenni dalla guerra. Ripresero il loro mestiere: il primo quello di commerciante e il secondo quello di pasticciere. Le rispettive mogli li avevano sostituiti per tutto il corso della guerra e avevano svolto con perizia i loro mestieri, aumentando i fatturati dei loro negozi, provvedendo nel contempo alla cura dei figli. Beniamino e Arduino, non ricordavano più i loro padri, perchè avevano una tenera età al momento della loro partenza per la guerra. La figura del padre era rimasta quella della fotografia sul comò, ormai sbiadita per le mosche che avevano lasciato sul vetro le loro tracce. Al ritorno del padre Beniamino rivide una figura completamente diversa da come l’aveva immaginata. Lo vide più magro e accasciato, ma si abituò ben presto a questa nuova figura che incominciò anche a stimare e a volerle bene. Il fratello Temistocle lo aiutava a condurre il negozio, pur essendo un bambino. Beniamino invece preferiva leggere, anche se il libro era sempre lo stesso, una vecchia edizione di Robinson Crusoe, capitata, non so perché e da quanto tempo, nella sua casa. Aveva appena imparato (frequentava la seconda) a leggere, ed essendo il migliore della classe, vi si esercitava quotidianamente. Si abituava così, di lì a qualche anno al libro unico della scuola, introdotto dal Ministero dell’istruzione Fascista. Arduino invece era alla prima elementare: usava per scrivere ancora la matita, che il calzolaio di fronte spesso gli appuntiva col trincetto. Il padre aveva ripreso il suo mestiere di pasticciere. Era molto bravo e apprezzato da tutti. Spesso andava a confezionare torte e pasticcini direttamente a casa degli sposi. Anche se i matrimoni, data la situazione economica, erano rari. Armido (questo il nome del padre di Arduino) aveva anche un’altra passione: quello dello scultore. La tomba di famiglia era rimasta con la facciata grezza e decise di rivestirla. Usava della graniglia di marmo che mescolava con un collante detto cemento, in una forma di legno. Una volta sformato il pezzo, con una pietra arenaria lo lucidava. I pezzi erano assemblati uno per volta con maestria e precisione e un poco la volta la facciata della tomba apparve in tutto il suo splendore. La guerra, nonostante la vittoria, aveva lasciato profondo malessere. I morti erano stati migliaia e al loro ritorno non trovarono lavoro e la disoccupazione imperava ovunque in tutto il paese. Gli impianti produttivi erano andati distrutti, l’agricoltura era priva delle sue migliori forze lavorative, i beni primari erano molto scarsi, specialmente nelle grandi città, dove i prezzi aumentavano vertiginosamente. Inoltre, i salari erano bloccati a causa della riconversione industriale, dalla produzione bellica a quella civile. L’offerta era ovunque inferiore alla domanda, i prezzi salivano e il potere d’acquisto scendeva, mentre a crescere, era il numero dei disoccupati. L’industre e l’agricoltura non erano in grado di assorbire tutta la manodopera costituita da coloro che erano ritornati dal fronte. Le industrie si erano trasformate in sostanza in produttrici di solo materiale bellico, la riconversione richiedeva tempi molto lunghi e furono molte le industrie a fallire. Sarebbero state queste leprincipali cause, ma non le uniche, a portare il Fascismo al potere. Arduino e Beniamino, dopo aver completato il ciclo dele scuole elementari, sotto il rigore professionale della maestra Spirito e del maestro Galardino, furono mandati a studiare alle scuole medie del capoluogo: prima alla scuola media e poi al liceo ginnasio “T.Tasso”. I genitori di entrambi i ragazzi si erano sottoposti volentieri a qualche sacrificio economico, per tenerli in città, perchè i ragazzi davano il meglio di sé ed erano diventati i migliori allievi del Liceo. In secondo liceo, nella classe di Arduino, era arrivata da Firenze una ragazza Eleonora Marvisa, figlia di un alto funzionario della Prefettura mandato in missione da Firenze. Si era trasferita con tutta la famiglia e aveva preso alloggio in un palazzo sul Lungomare. Eleonora era figlia unica. Era bellissima: aveva capelli e occhi neri, un corpo di giuste proporzioni, dal quale si rivelava tutta la sua freschezza giovanile. Arduino se n’era innamorato follemente. La aspettava, quando usciva da casa; spesso le offriva un gelato, all’uscita dalla scuola. Qualche volta la riaccompagnava. Lei gli concedeva il permesso, mai però il suo consenso. Lo riteneva un compagno di classe gentile e garbato e nulla più. Arduino ne era profondamente innamorato e la sognava giorno e notte. Spesso immaginava di trovarsi nel bosco e di tenerle la mano. In classe le passava il compito di greco, osando sfidare la severità del professor Postiglione, sempre pronto a richiamare e a rimproverare. Eleonora aveva anche una bella voce: melodica e intonata. Fu proprio durante il compleanno del padre che la sentì cantare. Rimase stupito. Accompagnata al piano dal padre, si cimentò in un’aria della Madama Butterfly. Arduino rimase estasiato. Era stato invitato insieme ai compagni di classe e all’immancabile professor Postiglione. Un grammofono, molto in voga, “La Voce del padrone”, suonò tanghi e valzer. Ebbe anche la fortuna di ballare con lei. Era in paradiso: avrebbe continuato così per tutta la serata. Non fu possibile, perché Eleonora dovette accontentare tutti compreso il vecchio professore. Un incanto: danzava come una libellula; si muoveva sull’onda della musica con agilità e scioltezza. Spesso s’interrompeva e si cimentava in canzoni classiche napoletane. Fu una serata, a dir poco, indimenticabile. Nell’estate del 1929, con la scusa di andare a trovare un amico di liceo a Torchiara, si era messo sul treno per Firenze. L’indirizzo (non se lo dimenticherà mai più): Via Del Giglio 43. Il padre di Elenora lo accolse gentilmente e gli offrì ospitalità per la notte. Arduino rifiutò, non tanto perchè non lo desiderasse, ma soprattutto per evitare che qualcuno ne sparlasse. Non era, infatti, costume del tempo alloggiare persone estranee nella propria casa, ad eccezione dei parenti. Andarono a passeggio alle Cascine. Fu in quell’occasione che le manifestò il suo sentimento. Eleonora, rispose che non era ancora pronta a impegnarsi per un passo così serio e manifestò le sue aspirazioni: avrebbe preferito sposare un capitano di vascello. La cosa fu detta da Elenora, non per scherzo, quanto per distogliere Arduino. Lui invece vi credette. Le sue aspirazioni, sempre incerte e sfuggenti, avevano trovato il loro sbocco: sarebbe andato in accademia e sarebbe diventato ufficiale di marina. L’anno passò. La licenza liceale fu conseguita con ottimi voti. La sua domanda in accademia fu accettata, le prove selettive superate. L’Accademia di Livorno lo impegnò per circa quattro anni. Divenne uno dei migliori allievi del corso. Durante gli anni dell’accademia, soprattutto la domenica, si recava a Firenze. I genitori avevano intuito le sue intenzioni, lo accoglievano, anche se non aveva ancora esplicitamente manifestato le sue intenzioni. Eleonora, anche se con qualche riserva, incominciava ad abituarsi al corteggiamento del giovane. Le visite furono frequenti. Intanto L’Italia dichiarò guerra alla Francia, Tutti gli ufficiali di marina furono messi sul piede di guerra e inviati a destinazioni prestabilite. Anche Arduino, ormai capitano di vascello, fu assegnato a destinazione da stabilirsi. Perse i contatti con Eleonora. Le lettere inviate dai vari porti mai giunsero all’indirizzo indicato. Probabilmente anche il padre era stato assegnato ad altra sede.

E Beniamino? Dopo la licenza, si era iscritto a giurisprudenza a Napoli. Durante le pause estive e in occasione della preparazione degli esami, ritornava in paese. Qui era diventato uno dei più attivi propagandisti del Fascismo. Era lui che teneva i discorsi, durante le cerimonie civili, sempre presiedute da zio Carmine e da zio Virgilio, ormai diventati “grandi invalidi”, esempi fulgenti di dedizione alla Patria. Non preferiva le esercitazioni paramilitari, in quanto, essendo rotondetto, gli costava molta fatica. Dopo aver conseguito la laurea, fece il servizio militare a Orvieto come ufficiale di complemento. Aveva appena terminato, quando fu richiamato. La guerra era iniziata. Accorse con entusiasmo e partecipò come ufficiale alla campagna africana. Nel 1940, ancora a Orvieto, in attesa di essere inviato al fronte, si fece dare un permesso di studio durante il quale sostenne gli esami da maestro. Era stata istituita una sessione speciale di esame proprio per i soldati. La sua avventura africana, però, non durò molto. Le truppe presenti in Africa orientale, dopo i primi effimeri successi (Conquista di Cassala e occupazione della Somalia britannica), furono presto isolate. Nella primavera la maggior parte dell'Africa Orientale Italiana fu occupata dalle truppe britanniche. L'ultima piazzaforte italiana a cadere in mano inglese fu Gondar, dopo strenua difesa da parte del colonnello Guglielmo Nasi (27 novembre 1941 Battaglia di Gondar). Ferito, in questa battaglia, fu congedato. Ritornò al paese ad animare i suoi compaesani. Nonostante le sconfitte, credette, fino alla fine, alla vittoria. Lo chiamarono, per questo, “ L’avvocato Vincere”.
Arduino si era imbarcato, come capitano di vascello, sulla Vittorio Veneto, che insieme alla Littorio rappresentavano i gioielli della Regia Marina. Nel giugno 1940, alla nostra marina è affidato essenzialmente il compito di interrompere i contatti tra le basi inglesi in Gibilterra e Alessandria e di garantire i collegamenti tra la madre patria e la Libia. L’11 novembre del 1940 si erano riunite nel porto di Taranto le navi da battaglia Andrea Doria, Caio Duilio, Conte di Cavour, Giulio Cesare, Littorio e Vittorio Veneto, gli incrociatori pesanti Bolzano, Fiume, Gorizia, Pola, Trento, Trieste e Zara, i due incrociatori leggeri Luigi di Savoia Duca degli Abruzzi e Giuseppe Garibaldi e vari cacciatorpediniere. La base navale di Taranto, così come tutte le basi navali italiane, era bene attrezzata per la riparazione delle unità danneggiate, grazie soprattutto alla disponibilità di grandi bacini di carenaggio, e alla presenza nel suo arsenale di tutti i pezzi di ricambio per i macchinari e le armi. Tuttavia si riscontravano gravi mancanze per tutto ciò che riguardava la protezione contraerea e la difesa antisiluramento delle navi in porto: le batterie contraeree erano del tutto insufficienti sia come numero sia come calibro, e a questo si aggiungeva la scarsa protezione notturna determinata dall'assenza del radar, per cui la rilevazione di eventuali aerei ostili in avvicinamento era affidata a vecchi proiettori di scarsa portata, guidati da aerofoni risalenti alla prima guerra mondiale. Due aerosiluranti attaccarono contemporaneamente la Littorio, colpendola sia a dritta sia a sinistra, mentre l'ultimo Swordfish sganciò inutilmente un siluro contro la Vittorio Veneto. In quella data, tristemente nota anche come la prima Pearl Harbor italiana, la flotta navale della Regia Marina italiana, dislocata nel porto di Taranto, riportò gravi danni in seguito ad un massiccio bombardamento a causa della flotta aerea della Royal Navy britannica. Partecipò e si distinse in tutte le operazioni navali e aeronavali condotte dalla Regia Marina, in cui essa fu coinvolta, nei trentanove mesi, che, dal 1940 al 1943, la videro impegnata in una logorante attività bellica nei teatri di guerra del Mar Mediterraneo durante il secondo conflitto mondiale. La Regia Marina non vinse la guerra, ma affiancata dall’Aeronautica e con il saltuario concorso del poco affidabile alleato germanico, essa bloccò le forze navali e aeronautiche britanniche e fece dell’Italia l’attore principale dell’Asse negli oltre tre anni della sua belligeranza nel Mediterraneo. Arduino ritornò a Firenze, dopo la fine della guerra. Seppe da un amico comune che Eleonora si era sposata e dal matrimonio erano nati due bambini. Fu un colpo. Per tanti anni le era stato fedele: mai aveva osato toccare una donna. Ora per lui….il vuoto. Sentì il bisogno irrersistibile di passare dal vicolo e rivedere l’angolo, via del giglio 43, dove era la sua casa. Non sapeva se salire e cosa dire. Poteva solo dirle: ”Come stai? Sono io!”. Fu solo la tentazione di un attimo, non gli andava di dire banalità. Preferì che nella mente gli rimanesse solo il ricordo. Troppo tempo era passato. Promise che mai più l’avrebbe cercata. Da quel momento a ogni porto ci furono una donna e una promessa. Passò qualche anno. Una sera, mentre si spogliava, vide sui suoi genitali una piaga rossa indolore. L’indomani marcò visita. Il verdetto fu inequivocabile: si trattava di sifilide. Il peggio doveva ancora arrivare. I batteri della sifilide erano entrati nel sangue e si erano estesi in tutto il corpo. Nei giorni seguenti erano apparse sul corpo piccole ombre rosse, la febbre era salita, frequenti erano i mal di testa, accompagnati da inappetenza e perdita di peso. Incominciò ad avere dolore ai muscoli e alle aticolazioni, che creava una spossatezza generale. I linfonodi si erano ingranditi. Fu messo in congedo coatto. Ritornò a casa in attesa della pensione, che non sapeva se sarebbe arrivata. La sifilide progredì a uno stadio latente, in cui non si manifesterono più sintomi pur essendo ancora presente l’infezione. Anni dopo la malattia fece sentire tutta la sua virulenza. Incominciò ad avere perdita di memoria e problemi mentali, mentre il suo corpo manifestò difficoltà di deambulazione, di equilibrio, il tutto accompagnato dascarso controllo della vescica, da problemi di vista, impotenza e perdita di sensibilità, specialmente alle gambe. Passava l’intera giornata davanti al bar del fratello, parlando in modo sconnesso delle sue avventure di marinaio. L’uomo, che era stato uno dei vanti del paese, si era ridotto a una larva.
Beniamino, dopo la caduta del Fascismo, si era chiuso in se stesso. Decise di partecipare a un concorso per maestro. Si trattava di un concorso riservato per soli titoli per i reduci e combattenti. Fu uno dei primi ad avere la nomina in ruolo, essendo, fra campagne di guerra, laurea e licenza liceale, uno dei primi in graduatoria. Si sposò e continuò la sua vita senza scosse fra l’insegnamento e la cura della famiglia fino alla pensione. Arduino, ormai quasi pazzo, morì delirando.

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10) L’investimento di zio Giovannino


Il paese si ergeva su una splendida e radiosa collina, di natura miocenica, flyschoide, costituita in gran parte da arenarie feldspatiche con inglobati strati di natura arenacea e di calcari marnosi. Davanti si stendeva la vasta piana del Sele, alle spalle la catena degli Alburni, detti i monti azzurri per il loro caratteristico colore. All’orizzonte il mare e nei giorni col cielo terso la sagoma dell’isola di Capri. Il fiume Calore dava l’acqua necessaria per irrigare i terreni della piana. Era formato da due parti: una, antica, più vecchia, col suo dedalo di viuzze acciottolate, e una, sviluppatasi nel dopoguerra, più nuova. Sensazioni, odori, ricordi sono ancora vivi nella mente.Piazza Umberto I° era la più grande del paese. Su di essa si affacciavano il castello, la chiesa del Carmine, quella dell’Annunziata ormai diroccata, la casa di Don Amedeo, il medico del paese.In fondo vi erano la casa di Don Aurelio, la farmacia, la bottega di Battilocchio, il falegname, quella del mio barbiere, il negozio di generi alimentari e la cantina dei Tedesco.Da parte opposta i due bar: quello di Saverio nello spazio antistante e inferiore del Castello, e quello di Brunetti, che si contendevano la maggior parte dei clienti. Quest’ultima era stata un vecchio garage ed era solo di recente ristrutturato e adibita a bar. Era gestito dalle sorelle Brunetti, Pupetta e Aida. Qui arrivava la corriera da Salerno: una vecchia auto trasformata in postale con una cabina isolata dal resto. Sul cassone vi erano installati dei posti a sedere con una copertura di legno e, intorno, un’intelaiatura chiusa da vetri e, per questo, detta Cristalliera. Al centro della piazza il monumento ai caduti della guerra 15-18, circondata da una ringhiera che chiudeva un’aiuola quadrata. Dietro la casa del cavaliere. Era l’unica ben costruita con i solai in cemento e le mattonelle in graniglia. In essa viveva Il cavalier Mazzei, un vecchio possidente. Aveva un gran pancione e la bassa statura ne arrotondava ancor più la fisonomia. Si recava spesso in campagna col suo asinello dai suoi coloni per ritornare sul far della sera con un paio di fascine che i suoi mezzadri vi avevano caricato. Portava, stringendoli sulla barda, un paniere di frutta di stagione. Il cavaliere possedeva molti ettari di terreno. I terreni erano di scarso pregio agricolo perché costituiti da calcari marnosi con una ricca percentuale di scheletro e con scarsi elementi nutritivi, dati in gran parte a mezzadria. Nonostante ciò, era riuscito a dare un certo benessere alla sua numerosa famiglia. Alcuni di essa erano diventati professionisti. Dalla piazza iniziava una lunga discesa, ai lati della quale si ergevano delle case. In fondo ,prima della curva una fontana di acqua sorgiva che era apprezzata per la sua frescura. Ed era qui che ogni sera mi recavo ad attingere l’acqua poco prima dell’arrivo del padre dal lavoro. Due strade, una, dalla parte alta, laterale al Castello, e l’altra, più in basso, conducevano al centro storico. Il vecchio paese, però, conservava ancora una certa vitalità. Vi si accedeva attraverso due porte, ormai aperte, che, però, conservavano ancora il portale in arenaria, la pietra locale con la quale era costruita la gran parte delle case. Infine, lateralmente alla Chiesa del Carmine, il borgo ricco di negozi e botteghe artigiane. Dopo qualche chilometro si giungeva alla chiesa dell’Assunta e, dopo una ripida salita, al cimitero con la chiesa di Montevergine col suo caratteristico e pregevole portale. La piazza non era asfaltata, cosa che avverrà dopo qualche anno, a tratti sterrata e in alcuni luoghi con massi affioranti di arenarie. L’illuminazione con lampioni dalla luce fioca conservava ancora alla loro base le aperture, dove erano messe le lampade ad acetilene.Un enorme pezzo di marmo, rozzamente geometrico, davanti alla bottega di Eduardo, faceva da panchina. Ai lati della piazza fila di acacie la conferivano decoro e bellezza. Inebriante l’odore dei loro fiori a grappolo nel mese di maggio.

L’unica fabbrica del paese, nella quale nel dopoguerra lavoravano la gran parte della popolazione, era situata in pianura a circa quindici chilometri del paese. Questa distanza, mancando mezzi di trasporto, era percorsa da gran parte a piedi. Perciò era inevitabile alzarsi molto presto per raggiungere il luogo di lavoro.
Il complesso aziendale era stato voluto e costruito da un giovane e illuminato uomo salernitano, che poi divenne sottosegretario, durante la II legislatura e la III Legislatura, sotto i governi Zoli (con delega all’emigrazione) e Segni.
Comprendeva un tabacchificio e una segheria con annesso conservificio. In seguito fu aggiunto un cordificio per la lavorazione del nylon per costruire elementi per i frantoi oleari.
Accanto al complesso industriale, era stato costruito un grande caseggiato per gli impiegati e gli operai provenienti dai paesi vicini.
Il lavoro in fabbrica, però, era di carattere stagionale, perciò si alternava il lavoro in fabbrica a quello privato, rendendo in sostanza inutilizzabile la bicicletta, la quale rimaneva chiusa nel bottaio.
L’ultimo tratto, per giungere in paese, di circa due chilometri, era fortemente in salita con tornanti in forte pendenza.
La strada, sterrata, unita alla stanchezza di una giornata di lavoro, impediva che si potesse percorrerla. Si smontava di sella e si portava la bicicletta a mano.
Dall’alto del muraglione, così era denominata la salita, i ragazzi attendevano e andavano incontro ai genitori. La bicicletta passava dall’una all’altra mano. Così, mentre i genitori abbreviavano la strada attraverso delle scorciatoie, i ragazzi percorrevano con la bicicletta a piedi i vari tornanti.
Qualche volta me ne ero impossessato ed ero riuscito dopo numerosi tentativi a padroneggiarla.
Erano gli anni della competizione di Bartali e Coppi.
Le loro gesta erano decantate da tutti e coinvolgevano anche noi ragazzi. Vivo era in tutti il sogno di imitarli. Coppi, soprannominato “campionissimo” aveva vinto il Giro ancora nel 1947, nel ’49, nel ’52 e nel ’53: ma la sua fama crebbe soprattutto grazie alle continue sfide con Bartali, che vincerà ancora nel 1946. La gente adorava il suo essere un “omone buono”, forse meno calcolatore del collega Coppi. Secondo alcuni sarebbe stata la vittoria di Bartali a una delle tappe del Tour del 1948 a placare gli animi degli italiani sconvolti per l’attentato di Antonio Pallante a Palmiro Togliatti: Bartali stesso ha invece detto come, forse, servì a distogliere momentaneamente l’attenzione ma che, certo, le due cose non avevano avuto la stessa importanza.
Coppi e Bartali gareggiarono spesso insieme e quando Bartali smise di correre divenne direttore sportivo proprio della squadra di Coppi che, invece, nel 1960 aveva quarant’anni e nessuna intenzione di smettere.

Un giorno io e il suo amico Ezio decidemmo di fare una gara con la bicicletta dalla piazza fino alle palazzine popolari: il primo tratto in discesa, il secondo fortemente in salita.
Fu proprio durante la discesa che avvenne l’investimento del postino. La velocità era talmente elevata che all’altezza di una sartoria, il postino che usciva con il suo borsone, fu investito.
Era un ometto basso e grasso che portava gli occhiali. Il borsone lo rendeva ancora più rotondeggiante. Sanguinante, con lettere e plichi sparpagliati dovunque, nonostante il forte impatto, aveva inforcato ancora su un orecchio gli occhiali.
Per due mesi fu costretto a mettersi in congedo, lui che non aveva mai preso un giorno di ferie, neanche quando ne aveva diritto.
Da lontano, timoroso, lo guardavo con entrambi le mani ingessate. L’incidente: una fortuna! Infatti, in quel tempo, era costume, anche se in modo provvisorio, affidare la supplenza a uno dei parenti. Fu così che la giovane figlia, che egli aveva adottato, divenne postino. E poi fu la volta del marito Giovanni. Anche lui, così, da sarto divenne postino.
Ed io, sebbene a malincuore, fui costretto a cambiare sarto.




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11) Il poliziotto mastro Dinuccio

Era costume in paese, alla chiusura della scuola, da parte dei padri, mandare i figli presso un artigiano, non tanto per imparare il mestiere, quando per tenerli lontani dalla strada.
Anche a Luigi spettò in sorte “mastro Dinuccio”, un falegname, che aveva da poco aperto bottega.
Questi era figlio dell’artigiano che aveva insegnato a suo padre il mestiere di muratore.
La bottega si trovava a mezza strada fra il centro e la sua casa al bivio detto “La croce “. Erano due locali terranei separati da una porta. Vi si accedeva attraverso due portoncini. Nella prima vi era il banco di lavoro con gli attrezzi. Nella seconda vi era un camino, dove Luigi scioglieva la colla quando serviva.

In un angolo della bottega i trucioli e la segatura residui della lavorazione del legno. Non vi era il tetto ma solo il solaio. Un muro dell’altezza di qualche metro la circondava. Era il luogo dei servizi igienici. Ci si arrampicava attraverso dei massi.

Alle spalle un ampio oliveto nel quale si tenevano le principali fiere, soprattutto di animali domestici, maiali, asini e ovini.

Luigi, una mattina, mentre si recava in bottega, lungo un solco trovò alcune monete di carta, perse il giorno prima da qualche compratore. La madre, al ritorno, volle sapere, dove aveva preso quei soldi. La rassicurarono solo le parole del mastro al quale aveva narrato il ritrovamento.

Stando in contatto, tutti i desideri, le emozioni, i primi amori erano trasmessi anche all’adolescente garzone. Corteggiava una giovane e bella ragazza di nome Filomena. Spesso abbandonava il lavoro pur di vederla e scambiarsi uno sguardo.
Amava cantare il suo idolo era Claudio Villa. E’ inutile dire la sua gioia che egli provò, quando gli arrivò una cartolina dalla Rai: avrebbe trasmesso la sua canzone preferita.
Fare l’artigiano certo non era la massima aspirazione e, quando fu bandito un concorso nella polizia, decise di parteciparvi.
Nei giorni precedenti aveva imparato a scrivere una lettera aiutato da un maestro con la giusta e corretta ortografia.
I risultati furono positivi e la carriera di mastro falegname finì.
Iniziò la sua carriera militare.
Essere poliziotto significò per lui non solo sicurezza economica ma anche alimentare e soddisfare il senso dell’autorità.
Erano gli anni delle lotte bracciantili per la conquista delle terre. I primi cinquant'anni dello Stato unitario sono un continuo succedersi di scontri sanguinosi in ogni parte d'Italia fra masse che reclamano il loro diritto di vivere umanamente e truppe ridotte all'ubbidienza cieca e assoluta da metodi di caserma duri e spietati, eccidi di braccianti agricoli e di operai. La lotta si estese anche ai braccianti della piana del Sele e molti di essi furono arrestati.
I braccianti si trovarono davanti ai carri armati: il 23 marzo 1950 la lotta al grido di "pane e lavoro" cambiò la vita a San Severo. A fermare la rivolta arrivò l´esercito. Un morto, centinaia di feriti e 180 arrestati. Uomini e donne, in carcere per due anni. I loro bambini incustoditi furono accolti nelle case di famiglie del Nord grazie a una catena di solidarietà. L’uso della violenza come strumento di risoluzione dei conflitti sociali non è stato una scoperta, un’invenzione del fascismo, anche se ne aveva fatto sistema esclusivo e permanente di governo. Le giornate milanesi del 1898 ne sono state già, ventiquattro anni prima dell’assunzione del potere da parte del fascismo, un’eccellente anticipazione. Il generale Bava-Beccaris e chi gli diede ordini (e chi a strage compiuta lo decorò) ubbidivano a concezioni del tutto identiche a quelle sulle quali poi Mussolini e i suoi accoliti hanno eretto la loro “radiosa” epopea. Nonostante la maggior parte del sangue versato nella lotta di liberazione fosse di giovani comunisti, subito dopo, con campagne infamanti quanto calunniose, essi furono cacciati dal governo. Il cerchio si era chiuso, da un regime liberale, formalmente democratico, apparescenti in pericolo, si passò alla dittatura fascista, la quale in venti anni di feroci repressioni e assassinii distrusse la volontà rivoluzionaria del popolo, quindi si ritornò ad un regime liberale, formalmente democratico, nuovamente pronto a difendere i propri privilegi con ogni mezzo. Nessuno pottè fingere di non sapere che subito dopo la liberazione fu costituita la forza militare segreta di Gladio, finanziata dagli USA e gestita da apparati governativi per attuare un colpo di stato nel caso il Partito Comunista avesse vinto le elezioni. La forza dei lavoratori faceva paura anche dopo vent’anni di dura repressione e la violenza contro di loro continua con altri mezzi. Si utilizzò la cosiddetta mafia e la strage di Portella delle Ginestre effettuata il 1° maggio 1947 fu il primo atto di terrore che diede inizio a una nuova e non ancora terminata scia di sangue, 32 giorni dopo De Gasperi formò un governo senza ministri comunisti e socialisti; dai documenti del Pentagono oggi sappiamo che gli USA fornirono segretamente alla Democrazia Cristiana 10 milioni di dollari in armi e munizioni, 24 ore prima delle elezioni politiche generali del ’48. Se la Democrazia Cristiana avesse perso le elezioni, si sarebbe trasformata in un corpo armato pronto a trascinare l’Italia in una guerra civile per impedire ai comunisti di governare. L’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga ha confermato l’esistenza di una Democrazia Cristiana armata clandestinamente. Il 19 aprile del medesimo anno ci fu l’attentato a Togliatti. Vi furono tentativi di colpi di stato come quello del generale De Lorenzo, la strage di Piazza Fontana e di Piazza della Loggia; gli attentati in tutto il Paese, ai treni; la strategia della tensione, lo Stato parallelo. Le collusioni mafia-servizi segreti; mafia e politica; i depistaggi dei servizi segreti che ogni volta che si trovarono inquisiti in uno scandalo cambiavano nome per acquisire legittimità; le inchieste sempre insabbiate; la massoneria; la P2; si è saputo che perfino volantini delle Brigate Rosse erano stampati dai servizi segreti, furno tutti fatti che tendevano a destabilizzare la nostra nascente democrazia.
Nel 1947 era iniziata la lunga e tristemente famosa carriera di Mario Scelba, come ministro degli interni, dicastero che guiderà ininterrottamente del 1947 al 1953. Si distinguerà per l’avversione alla piazza e alle manifestazioni dell’opposizione socialista e comunista (sia politica che sindacale) utilizzando anche e soprattutto le forze di polizia (la temuta “celere, i cui uomini i “celerini erano stati soprannominati “scelbini”).
Furono anni di discriminazione verso i militanti della sinistra ai cronisti dei cui giornali era persino vietato entrare nelle sedi del governo.
Ffurono anche anni di tensioni che spesso sfociarono in scontri tra calere e manifestanti con spesso morti e feriti.
A tutto questo era andato incontro mastro Dinuccio.


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12) L’uomo venuto da lontano

I genitori avevano un piccolo oliveto nei pressi del convento. Una stradina correva lungo il muro di recinzione di quest’antico convento: era l’unico viottolo attraverso il quale era possibile raggiungere il suo piccolo podere.

La chiesa del convento era dedicata alla devozione e al culto di S. Antonio. Era centro culturale e di studio dei padri Vocazionisti.

Lo spiazzo antistante era preceduto dal lavatoio comunale, coperto perché le donne potessero lavare i loro panni anche quando pioveva. Due ampie finestre con arco a tutto sesto lo illuminavano. Al centro i lavatoi in cemento, una canaletta portava l’acqua ai singoli lavatoi. In alto un ampio lunotto, dal quale i bambini osservavano le loro mamme.

Il convento attraverso un’ampia scala portava alla chiesa nella quale si svolgevano le funzioni domenicali e le novene. Lateralmente un ampio portone che immetteva in un vasto portico col centro un pozzo per la raccolta delle acque circondato da numerosi roseti. In fondo alla parte antistante alla casa delle suore che provvedevano alle esigenze degli studenti e dei frati.

Era novembre e Concetta era andata a raccogliere le olive. Aveva fatto tardi. Le prime ombre della sera si dilungavano lungo il sentiero. Era rimasta sola. Passando lungo il viottolo, attraverso un buco del muro di recinzione, spiato, non vista, vide un giovane che passeggiava. Da lontano appariva smilzo, con un'andatura timida, quasi incerta; da vicino si notavano i capelli nerissimi, la carnagione scura, le gote lievemente scavate, gli occhi vivacissimi e scintillanti. Incuriosita, altre sere, al tramonto, con una scusa si attardava.

Una musica, dolce e coinvolgente, le giungeva all’orecchio. Era la sinfonia n.40 in sol minore di Mozart, che lei aveva riconosciuto quando il nipote aveva acquistato il suo primo disco di musica classica. Il suo tono drammatico, ansioso e febbrile, contrasta talmente con l’atmosfera generalmente serena, obiettiva, a volte turbata nel profondo ma sempre calma in superficie, che ascoltatore ne rimane immediatamente colpito e i suoi occhi scorgono segreti che le parole non possono esprimere. Lungo il muro di cinta del convento vi era una porticina di legno. Una sera, spiato, non vista, la sentì aprirsi con un leggero stridio. Il giovane uscì e lei lo seguì. A un tratto scomparve.Il giovane, intuendo di essere seguito, si era nascosto. All’improvviso apparve, chiedendole chi fosse. Da vicino gli apparve in tutta la sua maestà. Il giovane, a sua volta, fu affascinato dalla bellezza della donna. Dopo averla fatta giurare che non avrebbe mai rivelato a nessuna la sua presenza in questi luoghi, le promise che si sarebbero ancora incontrati.Altre volte si videro. Parlava in maniera chiara. Le piaceva ascoltarlo: le sue parole le giungevano come una lieve e dolce melodia.Era una persona con una grande cultura, certamente un fisico. Luigi trovò in questo incontro la spiegazione il fatto che la nonna possedeva in modo chiaro e conciso alcune leggi di fisica: conosceva il concetto di modello atomico i principi elementari di fisica quantistica. Aveva chiara la definizione d’integrale e conosceva le regole elementari di risoluzione delle equazioni differenziali. Pur essendo pressoché analfabeta, queste conoscenze avevano sbigottito Luigi .Improvvisamente, così com’era apparso, scomparve.

Sulla sua scomparsa, e sulla via da lui seguita dopo di questa sono possibili soltanto ipotesi, non essendoci alcun fatto documentale sicuro.



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13) Emigrazione e ritorno

Ezio era figlio di secondo letto. Aveva capelli neri e ricciuti, mentre due occhi vispi gli imperlavano il viso. Amava passeggiare, specialmente lungo la via dove vi era quella che riteneva la sua fidanzata. Maria (questo il suo nome) era stata amata da Ezio prima in segreto, poi anche col suo permesso, mai col suo consenso. Erano gli anni in cui incominciavano a comparire le prime pulsioni sessuali. Bastava uno sguardo fuggitivo per raggiungere l’obiettivo della passeggiata. Si accompagnavano spesso alla fine della messa vespertina. Lui l’aspettava sul sacrario, si scambiavano qualche impressione sulle persone presenti e qualche pettegolezzo paesano. Capitava qualche volta che si dessero la mano nell’attraversare la strada. Si lasciavano con un sorriso, raramente con un abbraccio. Insieme alle tre sorelle e alla madre erano le bocche da sfamare.
Il padre (Fufuccio), un sarto, pur essendo un artigiano di buona qualità, data la numerosa schiera di figli, quattro con prima moglie e quattro con la seconda che però vivevano con la nonna, non riusciva se con espedienti, spesso al limite della truffa, a procurare il necessario sostentamento. Iperattivo, non stava mai fermo, i suoi occhi erano in continuo movimento. Sembrava indaffarato, anche quando non faceva niente.
Vi erano stati anni che erano assai difficoltosi, specialmente quando il raccolto contadino era magro per le avversità atmosferiche. Allora bisognava arrangiarsi per sopravvivere: debiti ai negozi, le stoffe, date dai contadini per cucire i cappotti, diventavano coperte per i figli per l’inverno.
Vi era, però, una risorsa, annuale e sicura: zio Donato. Questi aveva combattutto nella prima guerra mondiale. Era di bell’aspetto, alto ma zoppicante a causa di una ferita di guerra. Con la sua pensione, unita a entrate derivanti da alcuni titoli azionari, viveva modestamente. Ogni anno Fufuccio gli confenzionava, per la festa principale, un vestito, sempre di velluto e sempre lo stesso modello. All’acquisto della stoffa provvedeva lo stesso sarto. Il ricavato serviva a Fufuccio e alla sua famiglia per trascorrere una festa serena e tranquilla. Bisognava vederlo come si pavoneggiava durante la festa, col vestito nuovo e con un cappello a larghe falde, sul quale metteva ogni anno una nuova piuma di pavone. Per le due prime settimane, era un figurino, poi, le macchie di unto e lo stofinio prendevano il sopravvento e lo rendevano lucido e bisunto. Al rinnovo annuale gli sembrava di cambiare aspetto e di tornare a nuova vita.
L’inverno, quell’anno, era stato lungo e rigido. I debiti per il povero sarto erano diventati insostenibili. L’unica via di uscita: emigrare.
Per impedire che i creditori potessero fermarlo per questo suo proposito, pensò di andare via nottetempo e all’insaputa di tutti.
Dopo essersi fatto prestare dai fratelli e dalle sorelle il denaro necessario, avvisò un noleggiatore esterno di trovarsi nel luogo prestabilito. Di mattina presto con le poche misere e utili cose si recarono sul carrozzino del fratello nel luogo dell’appuntamento.
Da qui furono portati al porto, dove s’imbarcarono per il Brasile.
Ezio si allontanò dai suoi compagni e dal paese con il cuore in gola e giurò di ritornarvi per pagare i debiti e per dare lustro all’estero alla sua famiglia e al suo paese.
La vita all’estero fu dura: furono anni di stenti e di sacrifici. Finalmente la fortuna arrise a Fufuccio: un ebreo aveva bisogno per il suo paese di enorme fornitura di confezioni. Lavorando giorno e notte e utilizzando la numerosa manodopera familiare a disposizione, in breve la situazione economica cambiò. Il rispetto degli impegni verso il commerciante ebreo fece avere altre commissioni. Poterono comprarsi una casa nuova con tutte le comodità moderne. Ezio ormai poteva dare seguito alle sue aspirazioni e ai suoi sogni.
Riprese a studiare. Anche se in Brasile gli studi erano diversi, egli riuscì in breve tempo a recuperare e iscriversi prima al liceo e poi all’Università, dopo conseguì la laurea a pieni voti.
Il concorso in magistratura, la dedizione al lavoro e allo studio, l’equilibrio delle sentenze gli valsero rispetto di tutto l’ordine forense che ritenne di nominarlo procuratore capo.
Ormai, rispettato da tutti, con un’ottima posizione economica, poteva ritornare al paese natio, pagare i debiti dei suoi genitori e fare qualcosa per la cultura del suo paese.
Che cosa era successo intanto a zio Donato? Dopo la morte della moglie, i figli lo avevano lasciato per andare a lavorare all’estero e si erano dimenticati di lui. I suoi titoli azionari ormai erano diventati carta straccia. Rimase solo. Non rinnovò più il suo vestito e la penna che portava sul cappello. A poco a poco incominciò a curvarsi. Si muoveva con difficoltà e fu necessario ricorrere a un bastone. Si chiuse in se stesso, non parlava più con nessuno. Aveva acquisito la mania di raccogliere per strada tutto quello che trovava. La sua casa era diventata il ricettacolo di tutto quello che raccattava. Aveva messo alla punta del bastone un chiodo appuntito, con il quale infilzava ogni cosa che fosse a suo tiro, soprattutto mozziconi, chiodi e stracci. I mozziconi gli servivono per ricavare il tabacco per la sua pipa, che teneva sempre in bocca. Quando passava, si avvertiva il puzzo inconfondibile del suo tabacco ricco di nicotina. I miasmi pestiferi del suo fumo erano indizio certo del suo passaggio. Un sospiro di sollievo era emesso quando si allontanava. In tasca aveva una calamita attaccata a uno spago. Quando sentiva con bastone qualcosa di metallico, la estraeva e lo raccoglieva. A volte era una moneta, qualche volta un bottone di ferro, più spesso un chiodo. Raccoglieva tutto e tutto portava a casa.
I suoi occhi, grigi e inespressivi, erano però esercitatissimi. Riusciva a vedere nello spazio di qualche metro qualsiasi cosa. Il bastone ormai aveva perduto i propri connotati ed era diventato il prolungamento della sua mano artitritica. Il colpo era sicuro: una cicca e uno straccio passavano direttamente dal terreno alla sua tasca. La sua incombenza a casa era limare il chiodo per renderlo appuntito. Ogni tanto, quando si era consunto, lo cambiava. Cammivava a passi lenti e brevi, strisciando i piedi. Di giorno, anche quando pioveva, vagava per cercare. Dopo le feste si vedeva particolarmente attivo nei luoghi, dove vi erano state le bancarelle per la festa. Il rumore metallico lo metteva in guardia. Era una moneta che raccoglieva con la sua calamita. Allora sembrava, o era impressione, che suoi occhi acquistassero una luce particolare. Orami aveva le esigenze di un nano. Sembrava come dimidiato: trasportava il suo corpo come un guscio, mentre il suo spirito erà lì per cercare. Vi era sembra sempre qualche discolo che al momento della presa gridava: “Posa, pos!”. Incurante procedeva per la sua strada, raccogliendo e intascando.
Ezio e il padre Fufuccio, insieme al fratello di primo letto Cecchino, decisero di ritornare al loro paese.
L’emozione fu particolarmente intensa all’imbarco sull’aereo, che, di lì a qualche decina d’ore, l’avrebbe portato in Italia e al suo paese.
Ezio avrebbe per la prima volta visto le bellezze e i musei della sua Patria di cui aveva tante volte letto e studiato.
Se da un lato questo l’avrebbe riempito d’orgoglio, il ritorno al paese gli dava un senso di ansia e di emozione.
Gli ritornarono alla mente i suoi amici, la sua casa, le viuzze strette, il “sieggio”, dove le donne andavano ad attingere l’acqua, gli amori adolescenziali, i primi corteggiamenti innocenti e fuggitivi.
E poi le domande: “Come l’avrebbero accolto?”, “Com’erano diventati i suoi amici?”, “Com’era cambiato il paese?”, “Come era cambiato il modo di vivere?”, “L’avrebbero riconosciuto?”...
L’arrivo all’aeroporto quanto era diverso da quello del porto che lo vide emigrato. Allora, quanto squallore e quanta confusione! Gli erano rimasti impressi i visi tristi e pensierosi di quelli che stavano per imbarcarsi. Ora, all’aeroporto, era un via vai di persone indaffarate ed eleganti, spesso sorridenti.
Una breve visita a Marechiaro, una passeggiata a Forcella, una sfogliata da Pintauro, un caffè da Gambrinus. E poi……verso l’agognato paese!
Durante il tragitto, il taxista raccontava che anche la sua vita era cambiata da quando un decreto governativo aveva liberalizzato le licenze che in seguito a ciò la concorrenza era diventata spietata.
Parlava di un nuovo personaggio, di cui aveva sentito parlare, ma che non pensava fosse tanto popolare.
Quando arrivò giù in pianura, era di sera, incominciarono a vedersi sulla collina le prime luci, il suo cuore si mise a battere fortemente. Un’ondata di emozioni lo assalì: guardò la faccia di suo padre e del fratello e vide i loro occhi inumidirsi.
Tutto era cambiato: la piazza asfaltata, il monumento ai caduti spostato, gli alberi di acacia sostituiti da oleandri. Anche la terra, col suo profumo, bisognava indovinarla nelle sconnessure dell’asfalto e nelle non rare buche presenti.
Pioveva. Era una pioggerellina di fine aprile. In piazza l’arrivo di un taxi suscitò subito la curiosità dei pochi bambini. Nessuno poteva riconoscerli. In un angolo vi era un vecchio con un cappotto grigio e con passo vacillante. Era la persona giusta per chiedere informazioni.
Appena il vecchio sentì la voce, come rinato, esclamò: “Fufuccio, Fufuccio!” Si alzò dal suo bastone con uno sforzo e lo abbracciò. Sembrò che nel suo guscio, che aveva fino allora trascinato, fosse ritornato lo spirito. La sua voce, non più abituata a parlare, mal compenata dai mugugni e dagli squittii a bocca chiusa che solo gli riusciva a emettere, divenne chiara e decisa. Il sorriso, come per incanto, tornò sul suolo volto e i suoi occhi s’inumidirono.
Alcuni giorni dopo un puzzo cadaverico si sentì dal buco della porta della casa di Zio Donato. Fu ritrovato morto disteso sul letto dai carabinieri. Il suo viso appariva disteso, quasi rilassato.
I giorni che seguirono furono per Fufuccio d’intensa attività. I creditori furono pagati con gli interessi.
I parenti rimasti invitarono ognuno alla propria casa. Furono pranzi e ricordi.
Chi invece aveva sentito parlare della sua carriera era un giovane avvocato, Piero.
Le discussioni e dissertazioni giuridiche furono all’ordine del giorno. Emerse subito l’alta competenza giuridica di Ezio.
Altri emigrati in Brasile si unirono e decisero di creare un’associazione tra i due paesi.
Più volte, è tornato al paese con gruppi di connazionali sempre più numerosi. Spesso si sono organizzati incontri e convegni culturali.
… E Maria? Dopo la separazione e la morte precoce dei genitori, era rimasta sola. Era scomparsa all’improvviso. Nessuno aveva saputo darne notizie certe. I vicini sapevano solo che una mattina era partita con la corriera di linea, senza bagagli, senza salutare. Qualcuno, anni dopo, sussurrò di averla vista in una città del Nord aggirarsi con una borsa lercia nei paraggi di un mercato ortofrutticolo.

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